Vicini agli ultimi

di Lorenzo Cinquepalmi

Uomini e donne chiusi in prigioni fatiscenti, senz’acqua, stipati in pochi metri quadri, ammonticchiati in letti a castello, un andito che fa da cesso, doccia e cucina, con la puzza della muffa e della disperazione. Allora noi, che viviamo sicuri nelle nostre case, e vi troviamo visi amici, chiediamoci se possiamo davvero considerare persone umane quelle che la nostra società tiene in simili condizioni. Quando la forza dello Stato diventa violenza, tutti cessiamo di essere uomini. Sono dei colpevoli, degli accusati, dei reprobi. Ma cosa siamo noi, se li trattiamo in questo modo? E cosa li faremo diventare, continuando a trattarli in questo modo? La pena deve avere una componente di sofferenza, sia per marcare l’espiazione del male fatto, sia per innescare il processo di redenzione. Ma se la sofferenza non è accompagnata dalla speranza, la redenzione non può arrivare; se la sofferenza diventa atrocità, soffoca e cancella l’umanità in chi la subisce. Millenni di cultura, e di fede, ci hanno insegnato che in ogni essere, anche nel più abbietto, vive ancora la scintilla dell’umanità. Dobbiamo creare le condizioni perchè quella scintilla inneschi la fiamma capace di purgare l’indifferenza che è alla base di ogni malvagità. Ecco perchè oggi non possiamo lasciare soli quegli uomini e quelle donne che, chiusi nelle nostre carceri, pagano il conto del dolore che hanno causato. La nostra missione è l’interruzione del cortocircuito del dolore, la fine della sofferenza che genera altra sofferenza; se chi torna libero a fine pena delinque ancora, perdiamo tutti. Il primo passo per impedirlo è scritto nella nostra Costituzione: niente trattamenti inumani e degradanti, e reinserimento sociale dei condannati. No alla comoda tentazione di cavarsela con le spallucce e lo stereotipo del “se la sono voluta, dovevano pensarci prima di fare del male”. Senza il coraggio di andare oltre la legge del taglione, l’epidemia di violenza e di prevaricazione che già infetta la nostra società non potrà che crescere fino a diventare incontrollata. Troviamo il coraggio di dire che il carcere deve diventare una forma residuale di esecuzione delle pene, e che una forma così severa di privazione della libertà deve essere limitata agli irriducibili, ai violenti, a chi, nel commettere un reato, mostra crudeltà e indifferenza verso l’umanità tali da precludergli uno spazio maggiore di interazione con essa. Ma soprattutto, dobbiamo trovare il coraggio di dire che le condizioni inumane in cui sono tenuti i prigionieri, finché non riusciremo a mitigarle e anche come strumento per riuscirci, impongono un contrappeso, che si chiama indulto. Intraprendendo questo percorso, alla fine, saranno più quelli che avremo riguadagnato di quelli che avremo perso. E, soprattutto, avremo marcato la differenza tra chi sa essere giusto, e chi concepisce solo il linguaggio della ritorsione. Se questo è un uomo, allora sforziamoci di essere umani, tutti.

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