Un filo rosso lega oggi Israele e gli Usa. Ma ora chiedete scusa a Guterres

di Luca Cefisi

E’ stata diffusa la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che prevede il cessate il fuoco a Gaza in tre fasi: la prima, una tregua contestuale al rilascio degli ostaggi israeliani più fragili, e allo scambio coi prigionieri palestinesi (ci sono migliaia di palestinesi detenuti senza accusa formale, alcuni definibili come veri e propri prigionieri politici, oltre evidentemente a parecchi che sono davvero operativi di Hamas); la seconda, il rilascio completo degli ostaggi con il ritiro israeliano; la terza, la ricostruzione. Inutile recriminare che tutto questo era stato invocato sin dall’inizio da molti Stati membri, e per molti mesi: finalmente gli Stati Uniti, dopo tutta una serie di veti e rifiuti e scivolose astensioni, si sono impegnati, e questo fa la differenza. Molti hanno rammentato, in questi mesi, la brusca telefonata di Reagan a Begin, nel 1982, quando l’allora leader del “mondo libero” praticamente disse senza giri di parole al suo alleato Begin che il bombardamento su Beirut Ovest doveva cessare, che quella distruzione e quello spargimento di sangue senza ragione (needless, per ripetere le parole presidenziali di allora) avevano sollevato l’indignazione (outrage) dell’America. Certo, l’Olp non era e non è Hamas, ben diverso il profilo ideologico e politico delle due formazioni palestinesi, quella di allora trincerata a Beirut e quella insediata ora nei tunnel di Gaza, eppure simile era ed è la tragedia umanitaria, e simile il nodo politico sottostante. Biden non ha espresso la determinazione di Reagan; si dice che abbia scelto quello che in gergo politico americano si chiama bear hugging, l’abbraccio dell’orso: che cioè abbia ritenuto che, di fronte a un Israele traumatizzato dall’attacco terroristico del 7 ottobre, e senza un ricambio in vista per il pur disastroso governo di Netanyahu, fosse conveniente “abbracciare” Israele per riportarlo gradualmente su una via politicamente razionale. Questo almeno finché la protesta studentesca per Gaza non è diventata un problema politico interno (tra parentesi, come per il Vietnam, si noti che quello che indigna gli studenti che occupano i campus è che questa specifica guerra è condotta in nome delle libertà e dei “valori” dell’Occidente; quel certo maccartismo di ritorno, per cui gli studenti che contestano questo sarebbero filorussi, filocinesi o filoarabi, da espellere dagli atenei d’America, non sa considerare che i bombardamenti su Gaza vanno sul conto dell’Occidente, inteso come schieramento politico-militare, e non su quello di un qualche autocrate russo chiuso nel Cremlino o di qualche ayatollah, e questa è la chiave e la ragione delle proteste, se consideriamo invece Occidente il campo della società aperta, del diritto e dell’umanesimo, e della responsabilità e trasparenza nelle decisioni). Rimane che un Biden già sotto pressione, per la sua presunta senilità e mancanza di energia, ha cominciato a pagare un prezzo politico vistoso in casa: in diversi stati americani, nelle primarie democratiche, si è rilevato un voto di protesta (il 18,9 in Minnesota, il 13 nel Michigan e il 12 in North Carolina, per esempio), per delegati democratici dichiaratamente uncommitted, cioè “non impegnati” né per Biden né per nessun altro, alla convenzione nazionale democratica di agosto. Adesso, quindi, siamo al momento della verità: Biden ha finalmente enunciato quello che abbiamo sempre saputo, cioè che il conflitto israelo-palestinese non può trovare una soluzione militare, e i contendenti non possono essere lasciati da soli, serve l’ONU, e una cornice di diritto internazionale e decisioni condivise, servono garanzie umanitarie, servono istituzioni palestinesi da consolidare e legittimare, servono due Stati indipendenti e sovrani confinanti e che si riconoscano a vicenda. Ogni altra soluzione diversa da questa è irrealistica, velleitaria, e intollerabilmente sanguinosa. Ora che l’Onu si conferma lo snodo cruciale, si porgano le debite scuse ad Antonio Guterres, che tutto questo aveva detto sin dall’inizio, patendo insulti di ogni genere da vecchi e nuovi maccartisti dell’Occidente “geopolitico”.

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