di Andrea Follini
Due arresti e diversi sospettati, sono il primo esito di una indagine in corso in Israele che sta suscitando diverso clamore. Tutto vede come protagonisti uomini della cerchia di Netanyahu. Un suo portavoce, Eliezer Feldstein e due uomini della difesa e dell’intelligence, avrebbero nei mesi passati fatto filtrare delle informazioni riservate direttamente ad alcune testate giornalistiche straniere. Documenti costruiti ad arte per aiutare il premier a riacquistare credibilità tra il popolo israeliano, dopo le imponenti manifestazioni di sfiducia verso di lui e verso il suo governo, organizzate dai familiari degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Lo scandalo, già ribattezzato dalla stampa israeliana “BibiLeaks”, dal soprannome del primo ministro, sta scuotendo i corridoio dei palazzi di potere e viene ad aggiungersi ai già numerosi e controversi scandali che vedono protagonista Benjamin Netanyahu. A settembre il tabloid tedesco Bild aveva pubblicato dei documenti riconducibili ad Hamas che le forze militari israeliane avrebbero rinvenuto a Gaza, nei computer di Yahya Sinwar. In questi documenti era illustrata la strategia palestinese secondo la quale Hamas avrebbe avuto modo di fare pressioni verso le famiglie degli ostaggi affinché questi sollevassero l’opinione pubblica israeliana contro il governo di Tel Aviv. Questi documenti sarebbero serviti a Netanyahu per dimostrare alle famiglie degli ostaggi che stavano cadendo nella trappola mediatica organizzata dai terroristi. Nello stesso periodo, il leader del Likud avrebbe utilizzato un altro falso documento, fatto arrivare al giornale ebraico londinese The Jewish Chronicle e da questo pubblicato, secondo il quale il leader di Hamas Yahya Sinwar (poi ucciso il 16 ottobre scorso dall’Idf) stava organizzando la sua fuga da Gaza, con degli ostaggi israeliani come scudo, attraverso il corridoio Filadelfia, verso l’Egitto. La presenza di Feldstein nell’entourage del premier era stata inizialmente smentita dallo stesso Netanyahu, salvo poi doverne ammettere la collaborazione quando sono state pubblicate immagini e foto che li vedevano insieme durante gli spostamenti del primo ministro e la partecipazione degli stessi anche in importanti incontri di intelligence, nonostante Feldstein non avesse i protocolli di sicurezza necessari. Non è ancora chiaro da chi dipendesse direttamente il portavoce, se cioè fosse stato assunto alla ripresa della guerra con Hamas dal partito del premier, il Likud, o dal governo. Particolare che rende ancora più fumosa tutta la vicenda. Non è la prima volta che dagli uffici governativi escono informazioni riservate, ma per la prima volta, in questo caso invece, le informazioni sembrano essere state fatte uscire di proposito, per orientare l’opinione pubblica. Ma mettendo così in serio pericolo gli ostaggi. Se confermate dalle indagini, queste azioni si legherebbero alla mancata volontà di Netanyahu di raggiungere veramente un accordo per una pace duratura, già più volte manifestata con scelte precise in questo senso, conscio forse del fatto che la fine della guerra corrisponderebbe con ogni probabilità anche alla fine della sua carriera politica. Pace che invece sembrano ricercare i leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, che nei giorni scorsi hanno siglato con l’Egitto un accordo per la realizzazione di un organismo che si occupi della ricostruzione di Gaza. Il protocollo, sostenuto anche dagli Stati Uniti così come da diversi Paesi arabi, prevede la nascita di un comitato palestinese il cui scopo sarebbe anche quello di mantenere il controllo sulle infrastrutture civili della Striscia, depotenziando il peso politico di Hamas. E tutta la partita politica all’interno dell’OLP si è riaccesa dopo queste premesse, con una apparente riconciliazione tra le due fazioni palestinesi, Fatha ed Hamas appunto; premessa che pare importante per dare una nuova speranza a Gaza, dove sono stati uccisi più di quarataduemila civili, una volta che si sarà arrivati ad un cessate il fuoco definitivo. Che al momento appare come l’obiettivo più amabizioso in un conflitto nel quale gli interessi diretti dei leader, specie per quanto attiene al loro futuro politico, si legano in un nodo assai stretto ma poco virtuoso all’evoluzione della guerra.