Quegli estremisti che rendono avvelenato il dibattito in tempo di guerra

di Alessandro Silvestri

Il 4 maggio 1939, appariva sul quotidiano francese “L’Œuvre” un’articolo di Marcél Deat, futuro collaborazionista dei nazisti, destinato a restare nella storia: “Morire per Danzica?”. Nell’articolo si sviluppava la tesi del perché non bisognava mobilitarsi contro le mire espansionistiche di Hitler con una sequela di giustificazioni che oggi definiremo populiste, spiegando che i Paesi liberi d’Europa non dovevano intromettersi in quella piccola disputa regionale perché tanto Danzica era abituata a passare sotto questa o quella potenza militare e che non sarebbe accaduto nulla di particolare. Per Danzica (e tutto il resto d’Europa e non solo) avvenne, di lì a poco, la più grande ecatombe della storia umana. Un precedente così terrificante, che avrebbe dovuto vaccinare questo pianeta da future guerre. E invece sappiamo bene che così non è andata ma gli atteggiamenti all’interno dei Paesi europei non sono cambiati molto da allora. Persino nella ex roccaforte della democrazia occidentale, gli Stati Uniti, i virus dell’antipolitica e del populismo, hanno attecchito, come abbiamo avuto modo di vedere nell’ultimo lustro. Il conflitto in Ucraina è già meno divisivo, perché c’è stata una invasione militare e non è proprio giustificabile in alcun modo non sostenere chi è aggredito e non condannare chi ha violato l’altrui territorio. Ma anche qui vige e penetra il concetto se non di morire, ma nemmeno di pagare per Kiev. Perché i conflitti di queste dimensioni, alle porte di casa, costano ovviamente anche a noi. Dalle forniture energetiche alle mancate esportazioni, dagli aumenti delle materie prime a quelle delle varie utenze per tutti, imprese e famiglie. Dalla stagnazione economica che pesa sugli investimenti e la qualità del lavoro disponibile, alle pensioni e agli stipendi. E forse è inevitabile, oltre che in buona misura giusto e giustificabile. Ma non moriamo. Lo fanno gli ucraini per noi e anche per la nostra di libertà. Come amava dire Pertini, “non si può accettare che una sola libertà venga calpestata senza offendere tutte le altre”. Incluso quella degli altri. Sul versante mediorientale, ricordandoci che anche Israele è un membro associato della Nato e che intercorrono dal 2000 trattati commerciali con la Ue (senza mai dimenticare le leggi razziali e la Shoah) la situazione è certamente più complessa, ma non si tratta della “complessità” evocata dai putiniani di casa nostra, che tendono a giustificare acriticamente l’aggressione imperialista di Mosca. È passata da pochi giorni la data fatidica del 7 ottobre, e in questo anno di orrore e di nuova strage per migliaia di innocenti, ci corre l’obbligo di aver capito almeno una lezione: che sia l’attacco di Hamas contro i civili israeliani di un anno fa, che la risposta smisuratamente disumana del governo di Gerusalemme a Gaza, sono esattamente il metodo più efficace per allontanare il lungo e faticoso processo di pace che si trascina ormai fin dal 1947, verso un futuro inconosciuto. Il terrorismo palestinese non vuole nei fatti uno Stato indipendente palestinese (come probabilmente nemmeno lo vuole chi finanzia da anni i vari terrorismi islamici) e anche la destra al potere in Israele dimostra di non credere all’unica strada ieri, oggi e domani percorribile: quella dei due Stati liberi e indipendenti. È questo il frutto avvelenato dei rispettivi estremismi. Nemmeno per il Libano ha funzionato sostituire con Hezbollah la precedente se pur malferma, autorità. E non è questione di antisemitismo o antislamismo, non può essere questa la lettura spicciola dei fatti. La situazione geopolitica mondiale si è messa in movimento dal 24 febbraio 2022, e ha subito una ulteriore accelerazione il 7 ottobre 2023. Israele ha diritto di difendersi, ma non ha alcun diritto di uccidere civili, vecchi, donne e bambini. Questa logica non deve passare solo perché è capitata ai “paria” del Medioriente, quei 2 milioni di sans terre che abitano ammassati la Striscia, che nemmeno l’Egitto si è degnato di accogliere ed aiutare. Se la Palestina si ritrova di fatto senza una classe dirigente capace di riprendere in mano in tempi brevi la guida politica del Paese, dopo aver ceduto inopinatamente il potere ad Hamas, per Israele la situazione è paradossalmente inversa. Lo stato di guerra ha finito per rafforzare Netanyahu e l’ultra-destra riproponendo lo schema dei miti biblici di Sansone e i filistei o di Davide e Golia. Sapendo di contare anche sul sostegno dei Paesi arabi delle dinastie petrolifere che mal sopportano il fondamentalismo islamico guidato da Teheran. Un mix micidiale (l’abbiamo visto) che potrebbe divenire ancor più esplosivo di quello che già è. Con la Cina di Xi pronta a saltare addosso a Taiwan, nel momento di ancor maggiore caos internazionale. Una situazione in cui l’Italia ha poco o punto peso, più o meno al pari delle manifestazioni violente finto-filo-palestinesi della settimana scorsa a Roma, e dove molto dipenderà dalle elezioni americane. Se vince Trump prepariamoci ad un lungo conflitto in Medio Oriente, con ripercussioni mondiali imprevedibili. Se vince la Harris non pioveranno improvvisamente fiori su Gaza, la Palestina, il Libano e Israele, ma almeno si potrebbe contare su di un cessate il fuoco in tempi accettabili. Prima del fuori tempo massimo.

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