di Alessandro Silvestri
Chi sostiene in questo Paese che il bipolarismo è il male e non la cura, della sciagura politica nazionale lunga ormai oltre il trentennio di prolungata e accettabile quarantena, ha pienamente colto nel segno. Tanto che la supposta (in molti sensi) “governabilità”, spina nel fianco storica della fragile democrazia nostrale (ma bio) evocata come un mantra risolutore di ogni male, ha fatto più buchi nell’acqua di enne meteoriti. E il peggio di sé, giova ma ferisce dirlo, lo sta dando proprio l’ex centrosinistra (che si nobilita col trattino non certo con l’univerbazione) e anche l’oramai ex “campo largo” che invece di essersi accorto che abbiamo, dopo un secolo esatto, la destra al potere – ma diciamocelo, non se n’è accorto perché nel frattempo un po’ di destra c’è diventata anche la sinistra – si sta disonorevolmente perdendo in una estemporanea lite tra comari tra chi è il partito più talebano nel difendere e propagare il verbo dei magistrati. L’ufficio stampa della Roma bene che vuol mantenere l’imprimatur acquisito in anni di onorata carriera e i nuovi abolitori di povertà e privilegi che eleggono magistrati a raffica come “ai bei tempi” faceva il Pds. Per non parlare dell’impasse dei partiti minori, ma qui il velo pietoso diventa troppo corto. Una opposizione che finisce così per vivacchiare e per fungere in definitiva, da stampella insperata del governo Meloni, che pure di guai ne ha e ne combina a nastro. Emblematici due episodi accaduti nei campi avversi, quasi in simultanea, in queste settimane. Da una parte il neo ministro alla Cultura Giuli, quello che con un tasso abbondante di genio e sregolatezza, si è puppato la patata bollente lasciatagli in eredità da Sangiuliano, esordendo con una straordinaria prova monicelliana di supercazzola prematurata, sprizzante bagliori di catatonico stupore bipartisan. Che come primo atto si è visto costretto a licenziare “per giusta causa” il precedente capo di gabinetto, e dovendo scegliere persona di capacità oltre che di fiducia, ha puntato sul suo secondo al Maxxi; l’avvocato e docente universitario Francesco Spano, già capo della segreteria di Giuliano Amato da ministro degli Interni, e poi consulente legislativo per il Pd alla Camera. Apriti cielo! I fratelli e le sorelle d’Italia, capeggiati da La Russa in versione indignados, hanno subito mandato a dire al neo ministro che si partiva col piede sbagliato. Digiamo. Ma Giuli non solo ha tenuto botta, ma da assoluto neofita, o forse soltanto per l’algoritmo che sovrintende al famoso culo del principiante, ha indicato ai “suoi” come si fa quando si assume un incarico pubblico, dal più delicato a quello di sindaco di Bugliano. Vedremo se qualcuno dei melonians ne saprà trarre giovamento. Visto anche il risultato fin qui poco brillante dei fedelissimi, più o meno alla linea. Anoiquandoceraluitrenispezzeremolerenifaccettaneravoletevoilavitacomodamachedavero…Nel frattempo a Livorno, città emblematica del dramma e del trauma storico di noialtri, che perdemmo allora quel treno che passa giusto ogni cent’anni, si è consumata la vendetta dei buoni e dei giusti (a prescindere) contro gli irregolari un po’ pazzi e un po’ no, caduta in capo all’artista prestato alla politica (ma restituito bruscamente al mittente) Simone Lenzi, reo soprattutto di aver bestemmiato in chiesa, ovvero di aver detto male del Fatto Quotidiano…poi sì, per rincarare la dose e fornire prova di indegnità, sono stati tirati fuori anche post vecchi sui social che avrebbero potuto far sussultare il cuore di una vecchia zia lesbica, ma non certo a Livorno. La patria del turpiloquio artistico, del Vernacoliere, di Ovosodo, dei testi esteticamente dirompenti di Piero Ciampi, o di quelli di un anello di congiunzione labronica, e quindi possibile, tra Kerouac e Bukowski che è Bobo Rondelli. No via, ma chi ci crede? Lenzi oltre a non saper tenere un cecio in bocca, ha la colpa di aver fatto quello che gli è stato chiesto in campagna elettorale, sia nella prima che nella seconda vinta quest’anno, ovvero ridare alla sua e nostra Livorno, una dimensione artistica e culturale che aveva narcotizzato dal dopoguerra. Grazie anche all’adozione politica di una ferrea e rassicurante disciplina similsovietica. Che ancora oggi evidentemente, offre residuali frutti avvelenati. Basti pensare che prima di Lenzi, a Livorno, non si era mai tenuta una mostra su Amedeo Modigliani! E la cosa che ha dato più fastidio un po’ a tutti, non è stata soltanto la richiesta di dimissioni, con giunta ben allineata e coperta, ma la pubblica gogna richiesta dal suo sindaco. Il ben noto atto di bastonare il can che affoga. Corre d’obbligo riportare un passaggio dell’autodifesa dell’ex assessore: «La sinistra è affetta da narcisismo etico: la sua preoccupazione principale non è più quella di rappresentare gli interessi legittimi e le aspirazioni di chi cerca riscatto, ma quella di andare a letto ogni sera con la coscienza stirata, al calduccio della sensazione di far parte degli incompresi miglioratori del mondo». Bingo! Anche perché il narcisismo morale e moralizzatore, lo abbiamo conosciuto bene da vicino. Basti ricordare le parole di Veltroni/Don Abbondio che spese nei confronti di Ottaviano del Turco nei giorni della sua caduta: “auguro a del Turco di dimostrare la sua completa innocenza” sotterrando così di colpo, 2000 anni di scienza giuridica, di diritto e di civiltà, genuflettendosi ancora una volta alla santa inquisizione. In chiusura ci sentiamo di affermare che di questo Simone Lenzi sentiremo ancora parlare; del suo censore nutriamo forti dubbi. Ma il bipolarismo, è sotto gli occhi di tutti, crea fazioni e divisioni artificiali, incomprensibili al corpo elettorale che infatti si sta mano a mano disamorando della politica. E finisce per favorire i peggiori. La Repubblica italiana nel 1992 picchiò la testa contro un muro, e ce l’ha ancora fasciata e dolorante. Urge una rivoluzione soprattutto culturale. Proletari e intellettuali di tutta Italia, unitevi!