di Giada Fazzalari
Burro o cannoni? Lo sappiamo come è andata a finire quando un governo propose quella scelta, e saperlo dovrebbe aiutarci a capire come dietro le scelte secche ed estreme si nascondano sempre delle colossali tragedie. Eppure, oggi, il comodo espediente della contrapposizione forzata tra due alternative è usato e abusato da Meloni e affiliati: meglio la salvifica deportazione degli immigrati in Albania o una riduzione delle liste d’attesa per le cure? L’attuale governo, mettendo sui piatti della bilancia queste due scelte alternative, ha inchiodato la spesa sanitaria al 6% del Pil (come lo scorso anno e contro il 10% dei principali Paesi europei) preferendo spendere un milione di euro per costruire un gulag in terra albanese in cui provare a deportare i migranti. Solo provare, perchè la privazione della libertà, per chiunque, in un Paese libero e democratico, è affidata alla valutazione di un giudice e, in Italia, quel giudice ha detto che i migranti in Albania non si possono deportare. E allora: altra scelta vivere o morire, cari italiani: scegliete il quartetto Meloni-Nordio-Salvini-Piantedosi o le toghe rosse che tramano per affossare il governo? Peccato che quello che resta della corrente delle toghe rosse, Magistratura democratica, visti i risultati delle ultime elezioni del Csm, abbia eletto il 10% dei membri togati, e che, quindi, sostenere che la magistratura, o una parte importante di essa, spara sul governo, è come raccontare che il passero minaccia l’elefante. Sarebbe ora di provare a ricordare agli italiani che la realtà è complessa e richiede valutazioni e decisioni articolate, ciò che implica la certezza della fregatura ogni volta che qualcuno ti propone alternative semplici e radicali. Ciò di cui questo Paese avrebbe bisogno è ritrovare una classe dirigente seria e capace, per sostituire la marea di improvvisati saltimbanchi che, vivendo alla giornata, trovano come solo mezzo per restare al timone, o dalle parti del timone, lo spararle sempre più grosse, ignari o dimentichi del più elementare buonsenso oltrechè di quel patrimonio comune che, in passato, costituiva il limite invalicabile anche per i più spregiudicati. E quindi, se un giudice è così superficiale e irrispettoso dell’alta funzione che è giunto a esercitare da mettere per iscritto intenzioni eversive nei confronti del governo, è doveroso per qualsiasi governo e per qualsiasi forza politica prendere l’iniziativa per estirpare dalla funzione giudiziaria quel giudice, quella attitudine, e tutti coloro che la coltivano. Ma per farlo devi essere credibile, devi essere per primo assolutamente rispettoso dell’altrettanto alta funzione che sei arrivato ad esercitare; questa autorevolezza, povera Italia, non ce l’hanno nè Meloni, nè Nordio, nè Salvini, nè Piantedosi. E, a onor del vero, si fa davvero fatica a trovare nella società contemporanea, un numero confortante di persone di cui poter dire che rappresentano una figura autorevole e sicura a cui affidare un pezzo del proprio destino. Viviamo, dopo un secolo, un’altra stagione del “burro o cannoni”, animata da avventurieri per cui conta solo conquistare un pezzo della torta: è così nella politica, ed è così nella magistratura, ogni qualvolta l’importanza del ruolo operi la scissione tra incarico e responsabilità. Perchè quest’ultima dea del dovere, la responsabilità, è concepita dai più solo come difesa della propria tasca, e non come obbligo nei confronti della comunità. Basta pensare ai simboli di questa guerra dei trent’anni tra politica e magistratura: a quelli come Di Pietro, passato dalle furie censorie alla gestione opaca dei rimborsi elettorali; a quelli come Bossi, passato da “padroni in casa nostra” alle spese pazze al Pirellone del Trota; a quelli come Fini, il padre politico della Meloni, dalla presidenza della Camera alle malversazioni immobiliari. I figli di quella stagione li abbiamo sotto gli occhi: la guerra dei trent’anni, come ogni guerra, lascia le cose, e soprattutto le persone, assai peggiori di come erano prima che cominciasse. Anche tra coloro che dovrebbero avere il coraggio di scriverlo.