Pena certa ma funzionale alla riabilitazione

di Lorenzo Cinquepalmi

La situazione delle carceri italiane, indegna di un Paese civile, è ogni giorno sui media, sulla bocca del Papa e del Presidente della Repubblica, e finalmente, forse, nei pensieri degli italiani. Un suicida ogni tre giorni, oltre a quasi mille tra tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, disperazione e suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Il punto è questo: in linea di principio, e anche sul piano sostanziale, i condannati hanno contratto un debito con la loro comunità e la legge stabilisce il modo con il quale devono adempiere a quel debito. Questo è ciò che l’italiano medio pensa, e sarebbe un errore, oltre che ingiusto, dire che sbaglia. Ma la regina delle leggi, di quelle leggi che devono stabilire come si paga un debito con la giustizia, la prima di tutte le leggi, la Costituzione, ci insegna che i detenuti non possono essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti; e che la pena deve avere come scopo il recupero del condannato alla società. Per questo la risposta naturale alla disumana condizione dei carcerati dovrebbe essere una sola: indulto. Condannati che hanno sofferto molto più di quanto dovevano, meritano un atto di clemenza. Nella percezione generale, però, la pena è afflizione, sofferenza, espiazione. E che queste siano componenti della pena, è innegabile. Come altrettanto innegabile è che afflizione ed espiazione siano anche uno degli elementi di quel processo di recupero sociale dei condannati, che è nell’interesse di tutta la società. Oggi, però, per 61.480 prigionieri reclusi nelle carceri italiane, la pena è solo afflizione, dolore e disperazione, senza nessuna prospettiva di recupero, dentro prigioni che sono solo fabbriche di odio e di recidiva. Quasi il 70% di chi sconta tutta la pena in carcere torna a commettere reati; ma la recidiva crolla al 2% tra coloro che scontano la pena attraverso esperienze di recupero e di introduzione al lavoro. Il tema, allora, è di un’evidente semplicità: se non si vuole seguire la via maestra dell’atto di clemenza, bisogna almeno ridurre seriamente la quantità di dolore inflitta ai carcerati, e aumentare la quantità di speranza. Per riuscirci, si deve avere il coraggio di cambiare in modo sostanziale la visione dell’esecuzione penale, prima di tutto tracciando una distinzione fondamentale, almeno rispetto al carcere, tra chi è condannato o arrestato per reati violenti e chi è accusato di reati in cui non vi sia violenza verso la persona umana. Questa distinzione nella tradizione del diritto penale è chiarissima, eppure, negli ultimi decenni la politica giudiziaria sembra avere smarrito la chiave per affrontare l’altra fondamentale condizione che giustifica la privazione della libertà: la pericolosità. Una chiave importante, e di facile comprensione per chiunque: riconoscere come chi commette reati violenti sia, sempre e comunque, più pericoloso di chi commette reati in cui non c’è la violenza, fisica o morale, contro la persona. Identificare questo spartiacque ed erigerlo a strumento per istituire nuove modalità di esecuzione delle pene: questa è la soluzione. Chi non ha usato violenza, ed è dunque meno pericoloso e con una pericolosità più gestibile, può essere avviato verso misure diverse dal carcere con modalità, automatismi e limiti di pena diversi da quelli attuali. Oggi, infatti, in linea di massima, il criterio pressoché unico di accesso a misure non carcerarie è quello dell’entità della pena, indipendentemente dal tipo di reato, con l’unica eccezione dei reati particolarmente gravi, cosiddetti “ostativi”, tutti, peraltro, connotati dall’elemento della violenza, individuale o collettiva. Proviamo invece a pensare che chi non ha usato violenza non va in carcere. Che va ai domiciliari, direttamente, senza valutazione discrezionale. Che quando è condannato definitivo, va ai domiciliari con limiti di pena molto più alti di quelli di oggi. E che deve andare a lavorare, ovviamente in condizioni di sicurezza e di controllo, perché il lavoro è essenziale per far crollare la recidiva. Ecco la proposta: chi è accusato o condannato per reati non violenti non va in galera, ma ai domiciliari, direttamente e automaticamente. Entrerebbe comunque in carcere anche per reati non violenti solo chi ha una pena da scontare superiore a una soglia alta, otto o dieci anni. Si ridurrebbe almeno di un terzo la popolazione carceraria, e si moltiplicherebbero, di conseguenza, gli spazi per i detenuti rimasti. Ma, insieme, anche la percentuale di agenti e di personale dei servizi sociali rispetto a essi. In condizioni diverse dall’attuale drammatica situazione di sovraffollamento e di prigioni fatiscenti, anche i percorsi di recupero dei detenuti in carcere sarebbero più efficaci. A chi dovesse pensare che restare ai domiciliari non sia abbastanza afflittivo, non abbastanza punitivo, basterà ricordare la recente esperienza dell’isolamento sociale durante la pandemia; un tempo in cui quasi tutti abbiamo fatto l’esperienza della detenzione domiciliare. Dover restare chiusi in casa è una punizione severa, non severa come il carcere, ma abbastanza severa, e proporzionata rispetto alla fondamentale differenza tra chi ha sparso il sangue e chi non lo ha sparso. È una riforma semplice, non difficile da attuare, a condizione di avere il coraggio di pensarla, di superare il pregiudizio e di voler realizzare una società migliore, anche a partire da chi ha sbagliato.

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