di Andrea Follini
Siamo a più di duecento giorni dalla ripresa del conflitto israelo-palestinese. Sei mesi di morte e distruzione che hanno profondamente segnato il territorio della Striscia di Gaza ed i suoi abitanti. Ma quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo in Palestina, sta profondamente segnando anche il popolo israeliano. Le violenze, le uccisioni, i rapimenti del 7 ottobre scorso, sono certo crimini che vanno perseguiti. Ma la reazione a quanto accaduto quel terribile giorno, è apparsa in tutto il mondo come spropositata: si contano trentaquattro mila morti tra i civili palestinesi; le infrastrutture, le case, gli ospedali della Striscia sono nella maggior parte distrutti. Come distrutta è l’economia di quei territori, che affannosamente tentava di liberarsi dalla necessità del continuo supporto straniero, senza il quale, specie oggi, è impossibile sopravvivere a Gaza. Sulla difficoltà, per non dire impossibilità, di far giungere sufficienti aiuti umanitari, bloccati ai valichi dall’esercito israeliano e spesso anche dalla popolazione civile, si è più volte informata l’opinione pubblica. Israele nel corso di questi sei mesi si è di fatto isolata dal resto del mondo. Il governo Netanyahu ha deciso una aspra linea di fermezza che è andata ben oltre il sacrosanto diritto di difesa di uno Stato. L’evidenza di questo isolamento sta in due ambiti diversi: Paesi storicamente amici e con legami socio-economici di lunga data, come gli Stati Uniti, sono spazientiti dalla linea di condotta di Netanyahu, e non lo nascondono. Anche l’ultima volontà espressa dal leader del Likud di portare a termine l’operazione di annientamento a Rafah ha visto il presidente Usa Biden manifestare tutta la sua contrarietà. Ma è soprattutto sul fronte interno che il governo di Tel Aviv deve temere l’isolamento. Non cessano le manifestazioni di piazza che chiedono incessantemente di portare a casa gli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas, ma anche le dimissioni dell’esecutivo. Di questi giorni è inoltre la notizia che il responsabile dell’intelligence militare dell’IDF, il generale Aharon Haliva, ha rassegnato le sue dimissioni, accolte dal Ministro della Difesa Yoav Gallant. Il generale già subito dopo gli esiti dell’incursione di Hamas si era assunto la responsabilità di non essere stato all’altezza della missione affidatagli; motivando la sua scelta, Haliva ha anche suggerito che venisse istituita una commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre, lasciando capire in questo modo che le vere responsabilità vanno ricercate altrove, in ambito più politico che militare. Ed Haliva non è l’unico militare di alto livello che ha deciso di lasciare. Anche il generale di divisione Yehuda Fucs, capo del comando centrale, ha annunciato al capo di stato maggiore dell’IDF che il prossimo agosto lascerà l’incarico. Non sono state esplicitate le motivazioni di queste dimissioni, ma pare chiaro che anche nell’ambiente militare, qualcosa non quadri. E l’insofferenza nei confronti del governo non accenna a diminuire anche per l’esenzione totale dalla coscrizione obbligatoria di cui gode la comunità ultra-ortodossa. Una condizione, questa, che indispettisce le altre famiglie che vedono i propri figli e figlie impegnati nelle attività militari, mentre a questa parte di popolazione non viene nemmeno richiesta l’obbligatorietà di un servizio civile alternativo. Sempre sul fronte interno il governo Netanyahu deve fare i conti con un sondaggio, pubblicato nei giorni scorsi dall’Israel Democracy Institute e ripreso da The Time of Israel secondo il quale l’84% degli ebrei ritiene che la politica del governo abbia rafforzato Hamas nel corso degli ultimi anni e che la maggioranza degli israeliani crede che il governo cadrà prima del 2026. Lo stesso sondaggio, tenuto conto dei diversi intendimenti politici dichiarati dagli intervistati, ha evidenziato che gli israeliani di sinistra e di centro sono meno ottimisti riguardo alle prospettive di sicurezza del Paese e al futuro della sua democrazia rispetto alla destra. Il sondaggio chiedeva inoltre agli intervistati per quanto tempo ancora, a loro giudizio, Israele sarà in grado di continuare la sua campagna militare a Gaza. Il 39,5% ha risposto che il Paese sarà in grado di continuare la guerra finché tutti i suoi obiettivi non saranno raggiunti mentre il 37% ritiene che il Paese sarà in grado di andare avanti solo ancora per pochi mesi. Infine il sondaggio ha evidenziato che la maggioranza degli israeliani ritiene che il controllo su Gaza dovrebbe essere esercitato ad una forza internazionale, non da Israele stessa, mentre solo il 13% vede l’Autorità Palestinese come futura responsabile del governo della Striscia. Dati insomma che non possono certo entusiasmare l’attuale leadership israeliana, sempre più isolata sul fronte internazionale quanto in quello interno e la cui posizione appare ogni giorno più precaria.