di Rocco Romeo
Nonostante le voci ricorrenti della possibilità di un accordo che segni un momento di tregua tra Hamas ed Israele, funzionale a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari per la popolazione della Striscia di Gaza ed il contemporaneo rilascio di alcuni rapiti israeliani, nelle mani dei terroristi dal 7 ottobre dello scorso anno, non vi è alcuna evidenza sul fatto che ciò sia imminente. Anzi, le azioni messe in campo dal governo di Tel Aviv vanno nella direzione opposta della ricerca di una situazione conciliante. La messa fuori legge dell’Unrwa, organizzazione internazionale sotto l’egida dell’Onu, il cui compito è di prestare soccorso alle popolazioni palestinesi martoriate, anche da prima della ripresa del conflitto, è un segnale forte voluto da Netanyahu. E l’effetto, su specifica indicazione del parlamento, sarà immediato. Questa situazione, già di per se precaria per un accordo di pace, si affianca a quanto da settimane sta succedendo in Libano, con le ripetute incursioni dei militari dell’Ifd che hanno messo in pericolo anche il personale militare della missione Unifil. In un contesto di accresciuta tensione e violenza, emergono numerose nuove testimonianze di arresti di massa e umiliazioni ai danni di civili palestinesi, inclusi anziani e persone vulnerabili. Secondo fonti locali, decine di palestinesi sono stati arrestati dalle forze di occupazione e costretti a spogliarsi, in un’operazione percepita come una misura intimidatoria. Episodi simili rivelano la complessità del conflitto in corso e le gravi conseguenze sulla popolazione civile. Parallelamente, a livello politico, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu prosegue con determinazione la campagna militare, ignorando gli appelli alla tregua che giungono sia dall’interno della comunità internazionale sia da alleati tradizionali. Secondo analisti, il suo obiettivo non è solo la neutralizzazione di Hamas e la liberazione degli ostaggi israeliani, ma una ridefinizione dei confini e degli equilibri di potere nella regione che va dal Mediterraneo fino al Golfo. Senza tener conto, però, che questa suggestione del leader israeliano non trova il conforto di un sostegno internazionale. E soprattutto degli Stati uniti, che in questo periodo elettorale preferirebbero una gestione più prudente del conflitto da parte dell’alleato. I governi occidentali invitano Netanyahu a fermare le operazioni: i vertici militari di Hamas sono stati eliminati e la guerra a Gaza sembra aver raggiunto, dal punto di vista militare, i suoi obiettivi dichiarati. Tuttavia, il primo ministro sembra determinato a perseguire un piano più ampio, in cerca di una nuova stabilità e influenza regionale per Israele, anche a costo di proseguire l’offensiva. Nel frattempo, gli effetti della campagna militare continuano a pesare soprattutto sui civili palestinesi, con arresti, sgomberi e perdite umane che sollevano forti preoccupazioni tra le organizzazioni per i diritti umani. Le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali chiedono una pausa umanitaria immediata per consentire l’accesso agli aiuti, ma la crisi in corso e la mancanza di una tregua effettiva rendono questo appello difficile da concretizzare. Le voci di denuncia, come quelle riportate da Eye on Palestine, cercano di sensibilizzare la comunità globale sui diritti violati e sulla necessità di proteggere i civili. Il prolungarsi del conflitto rischia di avere ripercussioni di lungo termine, acuendo tensioni storiche e alimentando sfiducia tra le comunità colpite. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla regione, resta da vedere se la pressione internazionale e gli appelli alla moderazione riusciranno a influenzare le decisioni strategiche dei leader, garantendo protezione ai civili e aprendo la strada a un futuro di stabilità nella regione.