di Stefano Amoroso
C’è qualcuno che aiuta la ragazza?” la battuta dell’economista Pierluigi Ciocca, già vicedirettore generale della Banca d’Italia tra il 1995 ed il 2006, suscita risatine ed ammiccamenti nella sala dove, in un pomeriggio di fine settembre di quest’anno, si svolge un incontro promosso dalla Fondazione Ugo La Malfa sull’attualità politico economica e sulle prospettive per l’Italia. La ragazza è Giorgia Meloni e l’aiuto di cui avrebbe bisogno, secondo l’eminente economista e banchiere, è relativo alla gestione del debito in conto capitale dello Stato. All’interno del quale c’è sicuramente il tanto vituperato Superbonus ma anche la spesa per investimenti. Si tratta del famoso “debito buono”, di keynesiana memoria, più volte citato dall’ex collega ed amico di Ciocca, Mario Draghi. Al di là delle battute è impressionante constatare come, forse per la prima volta nella storia della Repubblica, arrivati al mese di ottobre ancora non sappiamo che cosa conterrà la Legge di Bilancio del 2025 che andrà alle Camere per l’approvazione tra poche settimane. Quasi sicuramente, visto l’altissimo livello di conflittualità all’interno della maggioranza di Governo (ci sono poche idee, e pure confuse e non condivise), la Legge di Bilancio verrà approvata a colpi di fiducia. E tuttavia, per una volta, quello che preoccupa gli economisti e chi disegna i trend della politica economica non è la modalità di approvazione della legge, ma il suo contenuto. Il Piano Strutturale di Bilancio (PSB), approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 27 settembre, si può riassumere in quattro grafici, pubblicati sul sito web de “lavoce.info”: la crescita è prevista positiva e crescente nei prossimi anni, con un picco del 1,2% nel 2025 per poi scendere gradualmente, fino ad un modesto +0,6% nel 2029. Parimenti, il disavanzo primario scompare già quest’anno, sostituito da un avanzo primario che si manterrà positivo e robusto nei prossimi anni. Tuttavia, per effetto del trascinamento degli anni passati, e soprattutto a causa dell’alta spesa per interessi, il debito pubblico è previsto in crescita in rapporto al Pil, dal 134,8 del 2023 al 137,8 del 2026, per poi scendere e tornare ai livelli attuali nel 2029. Il quarto grafico, infine, riguarda l’attuazione del Pnrr, che è ancora in alto mare in quasi tutti i macrosettori, con l’unica eccezione del mercato del lavoro, dove è stato attuato al 57%. Giova ricordare che, almeno in teoria, il Pnrr dovrebbe terminare nel 2026. Siccome appare poco probabile che un piano così complesso, realizzato finora solo per poco più di un terzo, venga terminato in tempo con uno sprint finale ed in periodo di tagli alla spesa pubblica, molto probabilmente l’Italia chiederà di prorogarlo, fino al 2029 ed oltre. In questo modo, però, il timore di molti economisti ed esperti di scenari economici è che svanisca l’effetto di stimolo alla crescita che il Pnrr doveva avere, e che le sue risorse diventino sostanzialmente sostitutive di quelle che lo Stato, in condizioni normali, avrebbe dovuto mettere. Sostitutive e non aggiuntive, quindi. E infatti, già fino ad oggi, la differenza tra la crescita prevista dal Governo Draghi, e quella effettivamente conseguita con il Governo Meloni, è di almeno il 2%. Una bella crescita che avremmo potuto avere, se solo il Pnrr non fosse stato completamente stravolto. Certamente ha influito il vento di austerità dei conti pubblici, che ha ricominciato a soffiare con forza su Bruxelles proveniente da varie capitali europee. Però è indubbio che il Governo ci abbia messo del suo, dando un’importanza eccessiva al deficit (che andava sicuramente ridotto, ma lo si poteva fare con tempi un po’ più lunghi) e troppo poca alla crescita. Come ogni rapporto numerico, infatti, anche quello tra debito e Pil ha sia un numeratore (il debito) che un denominatore (il Pil). Per ridurlo non c’è solo la possibilità della riduzione del primo, ma anche quella dell’incremento del secondo. È stato proprio seguendo questa logica, e puntando tutto sugli investimenti per la crescita, che un piccolo Paese dell’Europa meridionale, periferico e non molto ricco né industrializzato, come il Portogallo, negli ultimi anni è riuscito a ridurre il rapporto tra debito e Pil dal 135% a cui era arrivato dopo la pandemia, all’attuale 100%. Il che vuol dire -30% del rapporto in pochi anni. Ed ottenuto quasi tutto puntando sulla crescita e sullo sviluppo, anziché sulla riduzione della spesa. Evidentemente, a Lisbona, qualcuno ha aiutato i ragazzi a fare le scelte giuste.