L’intreccio irrisolto tra salute e Costituzione

di Angelo Lucarella

Lo sciopero del comparto sanitario degli scorsi giorni dimostra che non sia più utile comportarsi come se la verità non fosse sotto agli occhi di tutti. Perché di verità si tratta e a volte quest’ultima supera la realtà. Per realtà intendiamo le difficoltà che vive il sistema sanitario italiano; per verità, invece, ciò che il Governo non può fare. Ma è come se tutta la classe politica fosse ibernata e irrigidita di fronte all’unica decisione da prendere: cambiare il Titolo V della Costituzione in materia sanitaria. E si decide di non decidere per un motivo molto semplice: scaricare sulle Regioni le responsabilità della malasanità rende di più elettoralmente. Si tratta, in buona sostanza, di un campo minato che è meglio pratichino i livelli decisionali verso il basso (cioè le Regioni, appunto). Infatti, in Italia la situazione è in questi termini: lo Stato centrale può solo emanare norme che pongano principi fondamentali a cui le Regioni debbono attenersi nel fare le leggi regionali in materia sanitaria; di contro, le Regioni hanno il potere legislativo principale in detta materia. Lo si chiama “potere concorrente”, ma si legge “ognuno fa da sé”. Quindi, le Regioni fanno il buono e il cattivo tempo e alla politica centrale (cioè parlamentare) conviene sia così: il parlamentare di turno può lamentarsi della malasanità del Presidente di Regione il quale ultimo, a sua volta, rinfaccerà di non aver ricevuto abbastanza risorse per effetto del tira e molla sul fondo perequativo o perché arrivati in ritardo i fondi stanziati o perché dati di più ai territori virtuosi, ecc. Insomma, un sistema diabolicamente da “scarica-barile indotto”, quello originato con la riforma del Titolo V del 2001, che fa solo male al nostro Paese. Il tutto condito di una assurdità: la legge sul sistema sanitario universalistico degli anni settanta è diventata impraticabile e, si consenta lo sforzo terminologico nonché figurativo, per giunta incostituzionale nel senso pratico. Primo perché le differenze sanitarie, qualitative e quantitative, sono da anni denunciate da Agenas (che per conto del Ministero della Salute mappa la sanità territoriale) e secondo perché, in ragione del primo fatto, il principio del servizio sanitario nazionale vocato a superare gli squilibri territoriali del Paese in chiave socio-sanitaria, come previsto dall’art. 2 della legge 833/78, è disatteso sia politicamente che costituzionalmente. D’altronde, la stessa legge, proprio perché intrisa di universalismo riguardo al servizio sanitario da offrirsi, cozza con l’idea stessa del particolarismo del servizio sanitario impostato su base localistica, quale effetto diretto del regionalismo legislativo partorito nel 2001. Quanto sopra sta a significare almeno due cose: in primis che la politica centrale può, nel concreto, tentare di risolvere problemi sanitari stanziando fondi e, in caso di necessità ed urgenza, emanare decreti legge, come successi all’epoca della pandemia Covid, che assurdamente contrasterebbero (così com’è in verità) con il Titolo V della stessa Costituzione, non potendo il Governo stesso di turno essere incisivo per come vorrebbe trovandosi di fronte allo sbarramento di competenza per materia. In second’ordine che le Regioni con più fondi autonomi (uniti a quelli di trasferimento statale) possono investire, performare, assumere, garantire assistenza, cure e prestazioni, ecc. maggiormente. E qui viene il bello. O meglio dire il brutto della questione. Se valgono i due passaggi logici esposti, allora, correre ad individuare i Lep (livelli essenziali di prestazione) e prima ancora i Lea (livelli essenziali di assistenza) non fa che tradire la prima parte della Costituzione (specie gli articoli 2 e 3) e, per l’effetto, la legge universalistica degli anni settanta. Cosa, quest’ultima, che rende la legge 833/78 incostituzionale per motivi sopraggiunti dato che il parametro a cui i legislatori debbono ispirarsi dal 2001 in poi non è più l’universalismo, bensì il regionalismo tradotto in localismo, che è cosa ancor più diversa dal decentramento amministrativo e dalla sussidiarietà. Pertanto, a prescindere dall’autonomia differenziata, ciò che va cambiato è il modello di competenza sanitaria tra Stato e Regioni, perché nella realtà operativa il sistema sanitario sta arrovellandosi di disparità a causa della impostazione costituzionale data vent’anni fa. Questa non solo è verità, ma anche realtà a cui bisognerebbe porre rimedio urgentemente. Un’idea ci sarebbe: livelli crescenti ed omogenei su tutto il territorio nazionale e sorteggio per i direttori sanitari al fine di evitarne la politicizzazione.

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