di Lorenzo Cinquepalmi
Quella sulla giustizia è una guerra tanto sanguinosa quanto inutile. Lo scontro ormai permanente tra una parte del mondo politico e una parte della magistratura ha raggiunto livelli di degenerazione tali da apparire irreversibile, connotato da una serie di sgrammaticature istituzionali senza precedenti. Un esempio paradigmatico è quello della sequenza di annullamenti dei provvedimenti di trasferimento di migranti in Albania. Come è noto, il giudice ordinario è chiamato a convalidare ogni provvedimento incidente sulla libertà personale entro quarant’otto ore, questo vale anche per i provvedimenti di restrizione di immigranti irregolari in centri di permanenza gestiti dallo Stato italiano anche se dislocati all’estero, come il caso del campo fatto costruire dal governo in Albania. Il governo meloni ha fatto della deportazione di stranieri in Albania una sua bandiera. Il primo tentativo di deportarvi gli immigrati è stato vanificato dalla mancata convalida del provvedimento di polizia a opera del tribunale di Roma, sezione immigrazione. Il governo allora ha tentato di modificare l’elenco dei Paesi di provenienza cosiddetti a rischio, in modo da tentare una seconda deportazione con immigrati appartenenti a nazionalità che non rientrassero nell’elenco. Il tribunale di Roma ha annullato anche il secondo provvedimento e per la seconda volta la Marina Militare ha fatto da taxi agli immigrati in una gita di andata e ritorno tra l’Italia e l’Albania. Prima del terzo tentativo il governo ha pensato di aggirare l’ostacolo modificando la competenza del giudice chiamato a convalidare i provvedimenti di polizia, trasferendola dal Tribunale alla Corte d’appello. La risposta della magistratura è stata quella di trasferire temporaneamente alla Corte d’appello gli stessi giudici della sezione immigrazione del Tribunale di Roma che avevano annullato i due provvedimenti. Risultato: terzo annullamento e terza gita a vuoto in Albania di una nave della Marina Militare con ritorno in Italia degli immigrati deportati. Questo è un esempio limpido di come ormai la partita tra governo e magistratura o, meglio, tra le attuali visioni assai poco istituzionali della politica e della parte militante della magistratura, sia andata molto oltre il rispetto di quell’equilibrio tra poteri dello Stato da cui dipendono la democrazia e la libertà. Cambio di regole in corsa, cambio di magistrati al volo, sono sintomi di una volontà di portare avanti la lotta senza quartiere e senza regole. Il perdente in questo scontro non potrà che essere lo Stato, ovvero quella entità che deve garantire a tutti i cittadini il miglior futuro possibile. L’assoluta indisponibilità a trovare un terreno di dialogo sulle molteplici questioni aperte tra potere politico e magistratura, indipendentemente dal merito delle riforme e dei provvedimenti, condanna la nostra società alla perdita di fiducia sia nella politica che nella giustizia. In realtà, tanto nella magistratura quanto nella politica, esistono ancora personalità capaci di costruire un dialogo costruttivo e di affrontare i nodi di una funzione così delicata ed essenziale. Ciò di cui l’Italia ha bisogno è una stagione di persone capaci di affrontare i temi in modo nobile e costruttivo: esattamente il contrario di quanto accade oggi. E di affrontare i temi esistenti con la volontà comune di trovare un equilibrio che sia prima di tutto negli interessi della comunità e solo poi nell’interesse delle parti in gioco. Lo sforzo che tutti dovremmo fare è quello di imporre che la partita sia affidata a persone capaci di estraniarsi dal clima generato in trent’anni di scontri e di trovare insieme il modo di adeguare la giustizia e la sua amministrazione al tempo contemporaneo, restituendo alla politica la nobiltà dei suoi scopi. Il compito spetta all’elettore, evidentemente, ma un compito intermedio tocca a tutti noi che svolgiamo o dovremmo svolgere il compito di informare, perché è evidente che se descrivere i calci negli stinchi e fomentare lo scontro fa vendere, spiegare le ragioni recondite della guerriglia in atto e propiziare un ritorno alla ragionevolezza farà vendere di meno, ma rischia di concorrere a costruire un futuro migliore, fatto di persone che, nell’assumere funzioni pubbliche, pensano prima alla collettività e dopo, molto dopo, a se stesse.