“La Grande Riforma” il progetto socialista incompiuto. Sia d’ispirazione per un’Italia senz’anima

di Claudio Signorile

Nel progetto socialista approvato dal Congresso del PSI di Torino dell’anno 1978, si poneva alla nuova legislatura il problema della Grande Riforma. Veniva indicato un percorso capace di dare concretezza e capacità di consensi a quel progetto per l’alternativa, che aveva segnato il passaggio dei socialisti ad una nuova fase di elaborazione ed azione politica. Fuori dal consociativismo, quindi, per costruire una democrazia dell’alternanza, che rispondesse alle profonde trasformazioni del Paese e alla rinnovata vitalità di una democrazia che aveva bisogno di un passaggio di qualità radicale nella sua organizzazione istituzionale e nella priorità dei suoi valori. “La grande Riforma deve affrontare insieme l’ambito istituzionale, amministrativo economico e sociale, morale”. Per combattere i mali, che venivano indicati nel consociativismo, nello statalismo, nell’inefficienza burocratica; nella ingovernabilità. Questa proposta si configurava come una svolta istituzionale tale da determinare un equilibrio fra presidenzialismo e contrappesi parlamentari, secondo il criterio: “rappresentanza per tutti e capacità decisionale della maggioranza”. Nei dieci anni successivi il tema della Grande Riforma ha attraversato tutte le azioni politiche e di governo dei socialisti. Infatti, come si comprende, non si tratta di una proposta di ingegneria costituzionale, o di una operazione di forzatura istituzionale. La Grande Riforma si attuava attraverso una strategia delle riforme che si sviluppava nei settori più diversi della società italiana e delle istituzioni: dai poteri elettivi ed esecutivi, alla legge elettorale; dalla scuola al fisco; dalla legislazione del lavoro al sistema delle autonomie; dall’organizzazione della giustizia alle politiche ambientali; dal sostegno alle imprese alle politiche infrastrutturali; dai trasporti alla sanità. I risultati furono diversi e contraddittori, ma permanente fu la tensione che sostenne l’azione socialista in quel decennio, tutta rivolta ad una finalità di cambiamento della efficienza della democrazia. La Grande Riforma veniva riproposta nella sua complessità, nell’idea di farla diventare la giustificazione di contenuti e di valori per una nuova stagione politica dei socialisti. Essa era stata rilanciata dal messaggio del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel dicembre 1987, nel quale si affermava esplicitamente l’esigenza di una profonda revisione istituzionale; e dallo stesso programma presentato da Ciriaco De Mita, segretario della Dc, nella primavera del 1988, nel quale si cercava di assorbire questa tematica nell’azione di governo della stessa Democrazia Cristiana. In sostanza il tema della Grande Riforma aveva messo radici, non era più un “abbaiare alla luna”; ma doveva essere accompagnato e sostenuto da azioni politiche coerenti e conseguenti, tali da consentire quei cambiamenti necessari a sostenere un così ambizioso e realistico progetto politico. Ambizioso perché si trattava di cambiare profondamente gli assetti istituzionali e gli equilibri di potere del Paese; realistico, perché coglieva una trasformazione profonda che in gran parte era avvenuta e continuava a svilupparsi, togliendo radici e legittimità ad un assetto istituzionale e ad un sistema politico che aveva vissuto nella condizione di “democrazia consociativa”. Condizione resa necessaria dalla stessa evoluzione storica del Paese dopo la Resistenza, ma non più rispondente al Paese reale che prendeva coscienza di una nuova e vitale conflittualità, resa possibile dalle modificazioni nello scenario internazionale, nelle coscienze, nelle condizioni di vita e di lavoro. Questo non avvenne e la Grande Riforma restò un progetto incompiuto, travolto, con i suoi protagonisti, dalle vicende drammatiche degli anni successivi. Oggi questo progetto torna attuale. Non si può pensare alla Grande Riforma come operazione di ingegneria istituzionale pensata da giuristi e realizzata dai partiti. Troppo grandi ed importanti sono i fattori del cambiamento; troppo accentuato il passaggio verso nuovi valori; nuovi sono i protagonisti sociali. Se la cultura della consociazione deve essere sostituita dalla cultura dell’alternativa; se la società consociativa deve diventare società conflittuale; se la democrazia degli interessi deve diventare democrazia del contratto e delle responsabilità, la nuova Repubblica è il risultato di una vera e propria Riforma della struttura morale e civile del Paese, oltre che istituzionale e politica. Le questioni della grande riforma vanno aldilà del gioco politico e parlamentare, diventando elemento di verifica delle collocazioni ed alleanze nel profondo della società italiana; l’antitesi fra “continuità” e “cambiamento”, non è risolvibile con aggiustamenti formali e diplomazie di mestiere. La Repubblica Italiana è nata concentrando nel Parlamento la totalità dei poteri della democrazia. Era una scelta resa necessaria dalle condizioni storiche che hanno segnato il passaggio dallo Stato fascista allo Stato democratico: una guerra civile aspra e sanguinosa; una condizione internazionale che rendeva possibile ogni ulteriore contrapposizione e scontro; insomma molti fattori che potevano favorire una frantumazione della società e del Paese. Il “parlamentarismo totale”, era giustificato da una società divisa e da una democrazia debole, che affidava soltanto al Parlamento il compito nobile e per altro realizzato, di garantire l’unità del Paese e costruire lo Stato democratico; questo non risponde più alle domande di una società civile forte e consapevole dei suoi diritti e delle sue responsabilità, che sente l’esigenza della governabilità. Ma anche il “presidenzialismo assoluto” rappresenta una risposta sbagliata: in una democrazia pluralista e complessa nessuna Istituzione può detenere la totale origine dei poteri. Il Parlamento è il principale dei poteri nella democrazia, non è l’unico. In una società complessa, il potere dei cittadini, deve potersi esprimere in un sistema dinamico di Istituzioni che rappresenti la diffusa esigenza delle autonomie, la continuità e stabilità dei governi. Il primato del Parlamento, nel quale si unifica il Paese e dal quale emanano attraverso le leggi ed il controllo sull’attuazione delle stesse, le linee di organizzazione di governo e della società, può essere equilibrato da un potere esecutivo e da un potere del territorio, anch’essi espressione diretta della volontà popolare; questi poteri rappresentano l’insieme dello Stato e della democrazia efficiente. Si deve chiedere ai cittadini se vogliono restare in una democrazia caratterizzata dal “parlamentarismo totale”, ovvero scelgono la strada di un equilibrato rapporto fra il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere delle autonomie: poteri dei quali la comunità dei cittadini è origine diretta e nello stesso tempo garante. Cioè lo Stato federativo come risultato non soltanto di una semplice devoluzione dei poteri, ma nella ricostruzione del percorso della legittimità; elezione diretta del Parlamento nazionale; elezione diretta del Capo dello Stato, non del Capo del Governo; elezione diretta dei governatori e dei sindaci. In sostanza rafforzare la legittimazione popolare di chiunque eserciti un pubblico potere. Parlare di democrazia del contratto e delle responsabilità; accettare come base del lavoro politico una società dei diritti e non comprendere che tutto questo comporta una modifica di qualità nel rapporto fra politica e Paese, sistema dei partiti e società civile, istituzioni e cittadini, può avere come conseguenza l’impotenza ed il velleitarismo e quindi una crisi di credibilità e di rappresentanza che finisce per diventare crisi di legittimità. Forse ci siamo già dentro.

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