Intervista al Prof. Gianfranco Pasquino: «Salvini è incolto, Meloni una parvenue. Serve più cultura europeista e socialista»

di Giada Fazzalari e Andrea Follini

Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza politica, allievo di Bobbio e Sartori, è il più grande politologo italiano vivente. Ha scritto vari libri e testi oggi studiati nelle università; ieri è uscito “Fuori di Testa – Errori e orrori di politici e comunicatori” (Paesi Edizioni), il suo ultimo lavoro. Alla Festa dell’Avanti! ha dialogato con Pia Locatelli ed i Pes activist sul futuro dell’Europa, intrattenendosi poi per un forum con tutta la redazione dell’Avanti! della domenica, dal quale è nata questa intervista, curata dal direttore Giada Fazzalari e dai redattori Andrea Follini, Alessandro Silvestri, Daniele Unfer, Enrico Procopio, Giulia Battaglia, Stefano Amoroso, Lorenzo Cinquepalmi e Daniele Unfer.

Partiamo dal suo libro che uscirà il 20 settembre prossimo. Il libro titola “Fuori di testa – Errori ed orrori di politici e comunicatori”. Lei in questi due anni di governo Meloni, che errori e che orrori ha registrato?

«Un grande orrore è il premierato. Gli errori sono vari, ad esempio quello di sentirsi attaccati da qualche complotto inesistente. Cioè un governo inevitabilmente è sotto il fuoco delle critiche e dovrebbe anche saper rispondere in maniera adeguata, non demonizzando chi le fa. Un altro orrore è una parte di coloro che appoggiano il governo in maniera acritica. Tajani è politicamente esile, ma fa gioco sull’incarico che ha avuto al Parlamento europeo. Salvini è un uomo incolto che ha posizioni purtroppo condivise in alcuni settori della società. Meloni è una parvenu, però sa fare un po’ di politica. Per il resto, quella cultura continua ad avere elementi di fascismo innegabili».

Premierato e autonomia differenziata, è a rischio la democrazia come molti hanno osservato?

«Ritengo naturalmente che ci siano elementi che richiamano a quello che Miglio avrebbe chiamato “uno sbrego” alla Costituzione. L’autonomia differenziata è quello. Il Paese ha bisogno di Regioni che funzionino efficacemente e se vogliamo pensare ad una Italia meglio governata, bisogna avere delle macro regioni più forti. Calamandrei diceva “Repubblica presidenziale con una forte rete di poteri locali”; dunque, le città. Dove il sindaco è molto più in contatto con i suoi cittadini di quanto un qualsiasi presidente di regione possa esserlo. E quindi bisogna ripensare a tutta la struttura, che oramai è difficilissima da riformare».

Habermas è del ’29; Sartori è morto. E anche noi non ci sentiamo molto bene. Noi, intendo, come operatori della politica o studiosi come lei. E quindi le chiedo: oltre alla politica non è anche l’accademia in crisi in questa fase storica?

«L’accademia ha alti e bassi, ma il problema di quella italiana contemporanea è che quelli che sono bravi, se ne sono andati. Il vero problema è che non riusciamo a valorizzare le intelligenze. La mia autobiografia fa testo: alla facoltà di scienze politiche di Torino, quando io mi son laureato, c’era Bobbio, Lombardini, Forte, Marcello Gallo, Leopoldo Elia. Una facoltà irripetibile perché i professori bravi reclutavano altri professori bravi. Oggi i professori reclutano qualcuno che non faccia loro ombra, e quindi non ci siamo. Oggi le facoltà di scienze politiche sono mediocri. Però questo è un tasto delicato da approfondire: un uomo anziano che critica i suoi colleghi più giovani non va mai bene».

Lei spesso pone l’accento sulla competenza. Quali sono le caratteristiche di un politico che si possa definire competente?

«Dentro il Pd ci sono diversi uomini, più delle donne, anche se questo suona male, che hanno delle competenze e qualche volta alcuni di loro perdono il posto, come Fiano. Il problema generale è che non sanno tradurre le loro conoscenze in pratica politica; penso a Max Weber sulla politica come professione. Che ci vuole un po’ di vocazione, ma poi ci vogliono le conoscenze, e saperle sfruttare al meglio. Se mi chiedete se Elly Schlein è competente, vi rispondo… (tentenna, ndr). Vi rispondo o non vi rispondo? ».

Ci risponde, eccome se ci risponde…

(Pasquino sorride…) «Elly Schlein manca di alcuni elementi fondamentali della scienza politica. Però non è l’unica: perché quello che dice Giuseppe Conte è ridicolo. Quello che dice Matteo Renzi è ugualmente ridicolo. Troppo spesso, come dire, mancano di un minimo di umiltà nel cercare di approfondire i problemi. Bisogna sempre avere una visione comparata. E qui un grande studioso americano diceva che conoscere un sistema politico vuol dire non conoscere neanche quel sistema politico. Non intendo criticare Elly Schlein; è una movimentista, va bene anche quello. Però per cambiare un partito bisogna conoscere i partiti».

C’è un problema di qualità della classe dirigente, di mancanza di cultura politica di base?

«Le culture politiche, da quella comunista a quella socialista e liberale, purtroppo, non esistono più. C’è una cultura politica da far rivivere? Certamente si ed è l’europeismo che però è una cultura politica che bisogna saper costruire. Trovare gli elementi fondamentali. Il problema è che non esiste più neppure un luogo di confronto. Non c’è un luogo di confronto. Io credo che la cultura politica da fare vivere è quella europeista. Non un’Europa sociale, ma un’Europa socialista».

E cosa vuol dire socialismo secondo lei oggi?

«Vuol dire “opportunità” in una società giusta. E la società giusta è quella che da opportunità. Ma non una volta sola, come dire: “sei nato povero, ti consento di andare alle scuole elementari”. Ma consentire di avere un percorso; quella è la società giusta. Dare sempre qualcosa in più a chi ha avuto qualcosa in meno».

Come andranno a finire tutti questi tentativi di riforme, secondo lei?

«Che si può migliorare il premierato. Ma non è vero, perché lo devi buttare. E bisogna spiegarlo. Tra le altre cose si sta intervenendo sulla rappresentanza politica che è elettiva. Questa è un concetto che esprime Sartori nel 1963. La rappresentanza politica è solo quando c’è l’elezione e quando sei responsabile delle tue azioni. Per questa ragione il limite ai mandati è contro qualsiasi concezione liberale della rappresentanza politica. Non solo, ma impediscono agli elettori il grande piacere di bocciare: “lui è stato un pessimo rappresentante, noi lo bocciamo e ce ne prendiamo un altro”».

Quindi secondo lei anche per i sindaci sarebbe da intervenire sul limite dei mandati?

«No, lì bisogna discutere. Il Sindaco poi si crea relazioni e parte avvantaggiato. Bisogna che ci sia un limite a chi ha potere esecutivo perché si crea un gruppo cospicuo di persone che dipendono dai suoi favori e lui dipende dai loro voti. Al contrario, nelle democrazie parlamentari questo limite è assurdo, perché il capo del governo non lo eleggiamo noi, ma è un prodotto del parlamento, quindi non possiamo porre nessun limite. E possiamo rieleggere Giorgia Meloni per i prossimi trent’anni».

E come si fa a valutare la qualità di un politico di caso in caso?

«Valutare un politico è la cosa più difficile che si possa fare. Qualcuno dice: devi lasciare il Paese in condizioni migliori di come l’hai trovato. In Aula, ad esempio, il silenzio dei parlamentari è un indicatore stupendo. Se stanno zitti vuol dire che sei bravo; se non stanno zitti no, vuol dire che non sei credibile. Quando parlavano Mancino, Andreatta e Gino Giugni, tutti in silenzio».

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