Intervista a Tommaso Della Longa (IFRC): « I nostri appelli inascoltati. Fermate le bombe. Dal Libano un’altra possibile catastrofe umanitaria.»

di Andrea Follini

Tommaso Della Longa è il portavoce della Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (IFRC), l’organizzazione che raggruppa 191 società di soccorso sanitario nazionali e che conta su un numero importante di affiliati tra medici, attivisti e volontari che si curano della salute delle persone anche in situazioni di conflitto, dando sostegno umanitario alle persone vittime di guerre e di calamità naturali. Della Longa è giornalista e scrittore e da più di quindici anni collabora con Croce Rossa, curando in particolare la comunicazione dalle zone di crisi nel mondo. Abbiamo raccolto la sua testimonianza ad un anno dal riaccendersi del conflitto israelo-palestinese.

Ci eravamo sentiti a novembre dello scorso anno per avere notizie sulla situazione sanitaria nella Striscia di Gaza. Dal vostro osservatorio, com’è oggi la situazione?

 «Un incubo. Tutte le nostre principali paure si sono materializzate. Drammaticamente, gli appelli che abbiamo lanciato sono rimasti inascoltati. Sono dodici mesi di conflitto ma non dobbiamo dimenticare che non partivamo da una situazione di normalità, ma di fragilità. Da più di quindici anni a Gaza si alternano situazioni di conflitto con quelle di calma apparente. Gli ultimi dodici mesi hanno azzerato ogni tipo di sistema di gestione delle prime necessità che esistesse all’interno della Striscia. Oggi metà degli ospedali non funzionano più e anche gli ospedali da campo che sono stati realizzati funzionano a capacità e medicinali limitati. È una situazione catastrofica da quando il confine di Rafah è stato chiuso. Ogni situazione già emergenziale, come ondate di calore, piogge o allagamenti, viene resa ancora più grave dal conflitto. E ancora c’è il problema che i civili non sanno proprio dove andare; persone sfollate che si sono dovute spostare più di dieci volte. E poi un aspetto inquietante: dopo più di venticinque anni, a Gaza è tornata la polio. Abbiamo avuto la possibilità assieme all’Organizzazione mondiale della sanità, all’Unicef, di fare la campagna vaccinale, un grande successo. Adesso c’è bisogno di fare la seconda dose, per cui speriamo che ci siano nuovamente le condizioni; le condizioni igienico sanitarie dentro la striscia sono pessime».

Si parlava della possibilità, proprio perché il valico di Rafah è di fatto bloccato, di realizzare un approdo a mare, che consentisse lo sbarco degli aiuti umanitari. In Italia non abbiamo più saputo nulla di questo.

«<Non c’è soluzione che possa essere via aria o via mare che possa avere lo stesso livello di efficienza, di velocità e precisione del rifornimento via terra, che è già collaudato, organizzato. Rafah aveva tutta una parte logistica già organizzata, con l’accesso dall’Egitto già pianificata. L’unica cosa che mancava lì era avere un accesso più veloce, quindi con quantità maggiore di aiuti umanitari che potesse transitare, e la sicurezza nel poterli distribuire. Non è abbastanza aprire un cancello vanno create le condizioni. Cosa che non sempre si è avuta, basti pensare ai numeri drammatici dei colleghi uccisi mentre prestavano servizio».

Nella striscia erano stati realizzati una sorta di campi profughi per ricoverare le persone sfollate nel corso del conflitto. Posti che, si era garantito, erano indicati come sicuri dallo stesso esercito israeliano, anche se poi si sono dimostrati non esserlo. Come si vive in quelle aree?

«È difficile dire se ci sia una zona nella Striscia dove si sta meglio o peggio. Di certo la preoccupazione delle persone è il non sapere se il giorno successivo saranno vive o morte. Le persone non sanno dove trovare da mangiare per i propri figli, non sanno come trovare i medicinali. Se pensiamo ad esempio al campo di Al Magazi, zona definita sicura ma anch’essa bombardata, che è una striscia di sabbia dove da un momento all’altro migliaia di persone si sono riversate, senza alcuna logistica».

Il conflitto si sta ora allargando alla zona sud del Libano, come stiamo vedendo in queste ore. Vengono in mente due ordini di problemi: il primo legato al fatto che vi sia un attacco alla sovranità di un Paese; l’altro, che questa escalation verso il Libano distragga l’attenzione su quanto sta ancora succedendo a Gaza.

«Noi non entriamo su quest’ordine di questioni, che lasciamo alle istituzioni internazionali o sovranazionali che hanno il compito di verificare quanto sta succedendo. Noi poniamo al centro del nostro agire sempre le persone, la risposta ai loro bisogni. Quando i nostri appelli affinché cessassero le ostilità sono caduti nel vuoto, avevamo la percezione che una possibile escalation di questa situazione avrebbe allargato la quantità di persone bisognose di assistenza. Pensi che la situazione economica del circa 60-70 per cento della popolazione libanese è quella della soglia della povertà. Ormai da anni. Vediamo situazioni paradossali: ad esempio la Siria sta aprendo i suoi confini e le persone per essere al sicuro decidono di lasciare il Libano ed andare in Siria, un posto dove si sono già vissuti più di dieci anni di guerra, dove la situazione economica è disastrosa. Preferiscono passare il confine piuttosto che rimanere in Libano. Quello che noi vorremmo vedere è che cessino di cadere le bombe, che si fermi questa escalation. E che si riportino tutti gli ostaggi israeliani a casa, subito e senza condizioni. E avere accesso umanitario. Ma chiaramente, non ci possono essere soluzioni umanitarie se non ci sono soluzioni politiche. Noi non ci possiamo sostituire alle parti in conflitto, ai governi. Continuiamo a dirlo a gran voce. Un esempio: la Croce Rossa libanese lavora 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 gestendo tutti i servizi di ambulanza e di gestione dell’emergenza solo con volontari. È un lavoro pazzesco, sostenuto da operatori volontari meravigliosi. Questo servizio, oltre alla ricerca delle persone, alla distribuzione dei beni, all’allestimento dei posti di prima accoglienza per gli sfollati, eccetera, ha costi enormi. Il nostro appello per l’emergenza in Medio Oriente, che contempla ovviamente anche il Libano, riceve solo circa il 12 per cento dei fondi a disposizione. Ma se a questo non si affianca una risposta politica, questa situazione non può che peggiorare. Perché più i combattimenti vanno avanti, più le persone avranno bisogno, più il sistema sarà messo sotto pressione, tanto che ad un certo punto non ci sarà più nemmeno il modo di rispondere a queste necessità».

Ci sono condizioni generate da questo conflitto che sono meno apparenti ma pur gravi, anche guardando al futuro di questi territori?

«Sicuramente un tema troppo poco analizzato è quello della mancata istruzione delle giovani generazioni. Ci sono generazioni di palestinesi che non vanno a scuola. Questo significa avere delle ripercussioni immense sul futuro della società palestinese stessa. Questo è vivere nell’emergenza quotidiana, ma dovremmo anche interrogarci sui risvolti immensamente negativi che queste carenze avranno in futuro. Ecco perché, lo ribadisco, serve un’azione politica; serve fermare le bombe; serve riportare gli ostaggi a casa; serve far in modo che le persone vivano in sicurezza, da entrambe le parti. Serve insomma fermare il conflitto».

È questo l’appello che lancia, nuovamente, dal nostro giornale la Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa?

«Si, certamente. In quindici anni di servizio in Croce Rossa, non ho ricordo di appelli che siano rimasti per così tanto tempo inascoltati. Le stesse richieste che abbiamo avanzato all’inizio del conflitto sono quelle che ci vediamo costretti a riproporre ora: la protezione dei civili e degli operatori umanitari; l’accesso sicuro ed incondizionato in tutta la Striscia di Gaza di chiunque abbia bisogno; il ritorno immediato degli ostaggi israeliani alle loro case, senza condizioni; l’espansione del soccorso umanitario verso Gaza utilizzando tutti i corridoi. Queste richieste sono ancora tutte ferme».

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