Intervista di Lorenzo Cinquepalmi
La Repubblica mostra, nei confronti dei detenuti, un atteggiamento schizofrenico, alternando provvedimenti e impostazioni degni di una visione moderna e costituzionalmente orientata dell’esecuzione penale, a pratiche e atteggiamenti degni della ferocia medievale. Dalla positiva soluzione del bipolarismo penitenziario dipende un futuro migliore non solo per i condannati, ma soprattutto per la società civile che trarrebbe un grande beneficio dalla drastica riduzione della recidiva che, è provato, deriva da forme di esecuzione penale in cui la rieducazione e il reinserimento prevalgono decisamente sulla componente afflittiva. L’Avanti! della domenica ha chiesto il parere del dottor Samuele Ciambriello, garante delle persone private della libertà per la Regione Campania, nonché portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali.
Dott. Ciambriello, la condizione incivile in cui vivono i carcerati non è ormai negata nemmeno dalle frange più forcaiole della politica. La prima delle proposte dei socialisti è quella della necessità di un provvedimento di clemenza, anche per compensare l’eccesso di dolore inflitto ai condannati. Cosa pensa di un indulto e, soprattutto, della concreta possibilità che l’attuale parlamento ne approvi la concessione?
«In un contesto in cui il sovraffollamento ha raggiunto livelli insostenibili – con 14.500 circa di detenuti in più rispetto ai posti regolamentari – il Decreto Carceri approvato dal Parlamento appare come un’occasione mancata per incidere concretamente sul problema. Indulto e amnistia, che sono provvedimenti di clemenza previsti dalla Carta costituzionale, non sono esercizi di bontà. Una scelta potrebbe essere l’amnistia e l’indulto per coloro che devono scontare meno di due anni: non è una resa dello Stato, ne parla la Costituzione e da quando sono stato istituiti l’’indulto e l’amnistia sono già stati utilizzati quattordici volte. L’ultimo provvedimento di clemenza fu quello del 2006 con l’indulto e ha dato risultati estremamente positivi, perché tra coloro che ne hanno beneficiato la recidiva è stata abbattuta della metà. Ovviamente queste sono misure di emergenza per situazioni di emergenza, che poi andrebbero sostenute da riforme strutturali. Utile potrebbe essere l’approvazione della proposta Giacchetti volta a modificare l’istituto della liberazione anticipata, che prevede uno sconto di ulteriori trenta giorni a semestre per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi (30+45). Ma la percezione che si avverte su questi temi, quali l’ondata di suicidi e il sovraffollamento, è di totale indifferenza della politica. Così come per le condizioni disumane delle carceri. I suicidi sono la manifestazione dell’insopportabilità della condizione carceraria e di protesta, così come gli scioperi della fame e della sete».
Una seconda proposta socialista vuole superare la carcerazione come strumento principale di esecuzione della pena per i reati non violenti. Di recente, l’approvazione dell’ordine del giorno Costa, anche coi voti della maggioranza, afferma il principio, almeno in tema di custodia cautelare, per cui in relazione a reati che non attingono l’incolumità delle persone si debba prevedere un regime meno afflittivo. I socialisti propongono che i condannati per reati classificati non violenti, in cui non è coinvolta l’incolumità delle persone, scontino la pena in detenzione domiciliare, senza transitare per il carcere, con obbligo di lavoro, e in mancanza di impiego, impegnandosi in lavori di pubblica utilità. Qual è la sua opinione su questa proposta?
«La Suprema Corte, come la Consulta, hanno evidenziato che le pene sostitutive sono ispirate al principio secondo cui il sacrificio della libertà personale va contenuto entro il minimo necessario, oltre che alla necessaria finalità rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Esiste già l’affidamento in prova ai servizi sociali, l’ampliamento delle misure alternative è una risposta credibile ed efficace. Quanto alla carcerazione preventiva, mi auguro che non ci sia una custodia cautelare per tutti i reati. Il carcere deve essere estrema ratio. Non è la persona che entra in carcere a dover dimostrare la sua innocenza ma è lo Stato che deve dimostrare la sua colpevolezza per ogni ordine e grado, per ogni ceto sociale, e fuori dall’ottica che coniuga populismo penale, politico e mediatico».
L’attenzione della politica, oggi, è concentrata sulla disumana condizione dei carcerati e, di conseguenza, su strumenti eccezionali per fronteggiare una situazione ritenuta eccezionale. Tuttavia, l’inadeguatezza del sistema dell’esecuzione penale è strutturale, e l’attuale organizzazione penitenziaria è palesemente in contrasto coi principi costituzionali. Una riforma di sistema da dove dovrebbe partire?
«L’ultimo Decreto carceri parla di umanizzazione del carcere, ma è una finzione. Per i suicidi, per le forme di autolesionismo, c’è bisogno di psicologi, psichiatri, di assistenti sociali e di funzionari giuridici pedagogici. Bisogna aumentare gli assistenti sociali anche nell’Area Penale esterna; in Italia sono 130.000 le persone all’esterno del carcere in misura alternativa. Di queste 24.000 sono in Campania. L’esecuzione della pena è resa inumana e degradante a causa delle carenze strutturali, della mancanza di risorse umane e strumentali adeguate, oltre che di una sproporzione assoluta fra offerta trattamentale e popolazione detentiva. È necessario aumentare le figure d’ascolto».
Il modo di eseguire le pene, e la percezione diffusa della finalità della pena, sono, oggi, incentrati sull’afflittività a scapito della rieducazione. Da dove partire per costruire una coscienza diffusa della necessità, per dovere di giustizia ma anche del concreto interesse generale, di invertire la scala di valori privilegiando la rieducazione rispetto all’afflizione?
«Le condizioni di vivibilità delle nostre carceri che, lungi dal consentire quell’inveramento del volto costituzionale della pena, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei ed internazionali, su cui si regge lo stato di diritto, e a umiliare continuamente la dignità umana delle persone ristrette. Fondamentale è far sì che il carcere cessi di essere un luogo di “desertificazione affettiva”. Uno Stato che ricorre con troppa disinvoltura alla sanzione penale e alla repressione, non è uno Stato forte ma uno Stato debole. Forte è lo Stato capace di intercettare il disagio sociale, e adottare le misure sociali più opportune a tutela della dignità di tutte le persone, anche e soprattutto in carcere. Per fare ciò, non abbiamo bisogno di nuovi istituti penitenziari, di ulteriori sanzioni penali, di uno Stato securitario, ma di uno Stato sociale che sia sempre presente in carcere e che, attraverso investimenti mirati nelle attività trattamentali (culturali, sportive, ricreative, scolastiche, lavorative), sappia far sì che il tempo della detenzione abbia senso e sia funzionale al reinserimento sociale delle persone, come vuole la nostra Carta costituzionale. A tutela, sempre, della dignità umana».