di Stefano Amoroso
Le recenti elezioni europee ci ricordano che è un’abitudine diffusa utilizzare le elezioni al Parlamento europeo per regolare i conti aperti a livello nazionale o locale. Quando si vota con una penna intinta nel veleno e nel desiderio di votare contro qualcuno o qualcosa, tuttavia, di solito si fa un pessimo servizio alla democrazia. Che è un bene assoluto ma fragile, come ci insegnano le vicende storiche europee e non solo. I fatti sono noti: le destre euroscettiche, a cominciare dai due gruppi dei Conservatori e di Identità e Democrazia, nel complesso avanzano, anche se con significative differenze tra Stato e Stato, ed i partiti di maggioranza vengono spesso sconfitti in casa. Succede anche a destra, naturalmente: per esempio in Svezia, o in Finlandia, dove i locali governi di destra sono stati battuti dalle sinistre. E tuttavia, i casi più clamorosi avvengono altrove: in Austria, per esempio, dove l’ultradestra della FPO batte tutti. O come in Belgio, dove il partito del Primo Ministro De Croo, iscritto a Renew Europe, prende un misero 5,76% alle urne e finisce all’ottavo posto tra i partiti belgi. I ribaltoni più clamorosi, tuttavia, hanno riguardato Germania e Francia. Nel Paese più popoloso dell’Europa occidentale, la maggioranza di governo si scopre minoranza nel Paese, ed i socialdemocratici del Cancelliere Scholz finiscono addirittura terzi, superati sia dai popolari della CDU, sia dalla nazionalista AfD, piena di aperti ammiratori e giustificazionisti del tragico passato nazista. In Francia poi, la coalizione Besoin d’Europe, che include il partito del Presidente Macron, non supera il 15% e viene più che doppiato dal Rassemblement National di Marine Le Pen e del giovane Jordan Bardella. Più che di Europa, Macron e compagni avevano un disperato bisogno di elettori e di consenso, che non hanno trovato. Guardando alla mappa dei voti per singolo Paese, insomma, sono molte le Nazioni della Ue nelle quali, più che esprimersi su un’idea di governo europeo per i prossimi anni, gli elettori hanno voluto dare uno schiaffo al governo nazionale in carica. Tra le poche maggioranze parlamentari premiate dal voto europeo, come sappiamo, c’è quella italiana: FdI conferma ed aumenta le percentuali delle elezioni politiche del 2022; Forza Italia, che molti avevano dato per spacciata dopo la morte del suo fondatore, Silvio Berlusconi, regge ed avanza, e persino la Lega di Salvini, che comunque è uno degli sconfitti di queste elezioni, soprattutto in prospettiva strategica, trova il modo per reggere e minimizzare le perdite rispetto alle scorse elezioni politiche. Complessivamente, sommando i voti delle varie liste, si può dire che i vincitori sono tre: innanzitutto i Popolari della Von der Leyen, che non solo aumentano i propri seggi all’Europarlamento, ma acquistano maggiore spazio di manovra e quindi maggiore profondità strategica, per i motivi che cercheremo d’illustrare tra un attimo. Il secondo gruppo vincitore è quello di ID, grazie soprattutto alla notevole affermazione di RN in Francia. Se AfD avesse continuato a far parte di questo gruppo, probabilmente l’estrema destra euroscettica oggi sarebbe in grado d’insidiare i conservatori di ECR (presieduti dalla Meloni) come quarta forza dell’Europarlamento. Il terzo vincitore è il gruppo dei non iscritti e degli eletti che non appartengono a nessuno dei gruppi tradizionali dell’Europarlamento: nel momento in cui scriviamo, a conteggi dei voti non ancora ultimati, sono cento europarlamentari. Cento su settecento venti, quindi quasi il 14% degli europarlamentari. Se qualcuno dei gruppi parlamentari esistenti dovesse essere in grado di attrarre a sé una parte consistente di queste truppe parlamentari, allora gli equilibri a Strasburgo potrebbero cambiare. Tra tutti i gruppi, quello indubbiamente più forte e più capace di aggregare nuove forze è il Partito Popolare Europeo. Questo avviene sia perché, come recita il vecchio adagio, il potere logora chi non ce l’ha, e sia perché, in epoca di politica fluida e di elettorato spaventato ed umorale, più che le ideologie e le grandi costruzioni ideali conta apparire rassicuranti, persuasivi, flessibili e pragmatici. Devono aver fiutato l’aria, probabilmente, Weber, Metsola e soci: infatti, da un lato intendono conservare la stessa composizione della maggioranza uscente (PPE, S&D e Renew), e dall’altro aprire ad apporti esterni. Tutti pensano a Le Pen e Meloni, ma probabilmente i leader del Ppe pensano ancora di più ad almeno alcuni dei cento non iscritti. Se fossero in grado di assoldarli alla loro causa, insieme a qualche componente più ragionevole delle destre europee, potrebbero praticare una politica dei due forni che li rafforzerebbe, riducendo le opzioni strategiche dei socialdemocratici e dei liberali. Questi ultimi, infatti, non possono pensare di sostituire il Ppe con i Verdi, che è il gruppo che è stato maggiormente ridimensionato dal voto europeo. E allora, in prospettiva, ai socialisti e liberali europei non resta che abbozzare ed aspettare di avere in mano delle carte migliori. Quanto alla possibilità di andare a pescare tra i non iscritti, infine, le speranze della sinistra sono ridotte al lumicino: si tratta, infatti, a cominciare dai parlamentari della già citata AfD tedesca, o degli eletti di Fidesz del premier Orban, di gruppi storicamente orientati a destra e comunque ostili sia alle politiche migratorie che alla transizione verde. Come ha scritto bene qualcuno, i neoqualunquisti europei, più che parlare della fine del mondo, soffiano sulla paura del ceto medio di non arrivare più a fine mese. E su questo, ovviamente, lucrano politicamente.