Il finanziamento pubblico ai partiti e la democrazia low-cost

di Alessandro Silvestri

Il tema del finanziamento ai partiti, come un fiume carsico, emerge ciclicamente nel dibattito politico. Anche di recente grazie all’emendamento infilato sbrigativamente tra le pieghe del decreto Fisco dal Governo, e che per ragioni di forma e di sostanza, il presidente Mattarella ha rispedito al mittente. Un vero smacco per il destra-centro, si ritorna quindi alla proposta delle opposizioni che avevano chiesto un riadeguamento di 4,6 milioni del tetto massimo intanto per il 2024. Nemmeno l’articolo 49 della Costituzione, uno dei più disattesi in assoluto, chiariva le regole democratiche interne ai partiti e non li obbligava a certificare i bilanci. Si arrivò soltanto nel 1974 (Legge 195) a normare la questione, collegando formalmente i partiti ai gruppi parlamentari e obbligandoli a depositare alle Camere, i propri statuti con i nominativi del personale incaricato delle attività finanziarie. Un sistema imperfetto che ha garantito però la rappresentanza politica, la tenuta democratica e una certa autonomia dei partiti rispetto ai centri di potere, che il sistema pubblico garantiva grazie anche ai monopoli detenuti nei comparti economici fondamentali. Le imprese statali, gestite da manager che però rispondevano al partito che li nominava, offrivano garanzia di approvvigionamento finanziario con le partite “extra-bilancio” che esistono in tutti i Paesi democratici e non, ma che non si potevano giuridicamente giustificare. Non si poteva dire che si pagavano tangenti per trivellare i pozzi di petrolio, per realizzare grandi infrastrutture o per consegnare navi civili e militari; né che se ne ricevevano sui prodotti acquistati, dall’energia, alle materie prime, ai prodotti alimentari. Fondi gestiti capillarmente proprio dai partiti, in maniera consensuale. Pci compreso. Poi arrivò la “rivoluzione” del 1992 che promise la palingenesi e la trasparenza, derubricando il tutto a corruzione e finanziamento illecito. Una leva con la quale venne in realtà scardinato il sistema democratico che fino ad allora aveva garantito sovranità nazionale e prosperità economica diffusa. Favorendo un sistema bipolare imposto, il cui “pronti via!” fu dato dal referendum Segni del 1991 per l’abolizione delle preferenze e che oggi si manifesta nell’assoluto potere delle segreterie di partito, che di fatto nominano i parlamentari. E ancora in troppi in questo Paese non hanno contezza che l’assalto alla diligenza prefigurasse due scenari ben precisi: la sottrazione a prezzi di saldo dei tesori di Stato, e l’abbattimento di quella classe politica che non avrebbe ceduto nemmanco uno sgabello delle società pubbliche o partecipate. Vero volàno dell’economia nazionale anche privata. Al sistema partitico, è subentrata una sorta di democrazia low-cost imposta anche dall’ondata populista che fu cavalcata magistralmente dal loro capostipite, Silvio Berlusconi. Un populismo ondivago che ha di fatto caratterizzato questa evanescente Seconda Repubblica, dove si sono susseguiti i rapidi successi e le cadute altrettanto repentine dei vari pifferai magici, da Beppe Grillo ai due Matteo, Renzi e Salvini. Staremo a vedere le sorti dell’attuale Presidente del Consiglio. Tutto questo provocando anche un ulteriore effetto negativo: quello della mancanza di classe dirigente adeguata al compito. Perché passare di colpo dal 3% al 30% pone di sicuro dei problemi in tal senso. Nel tempo si è passati attraverso vari sistemi, uno più inefficace dell’altro. Basti ricordare i famigerati 49 milioni incamerati dalla sola Lega grazie alla legge del 1999 sui rimborsi elettorali, fatti poi sparire all’estero su conti personali. Fino ad arrivare, sull’onda del successo dei 5 Stelle (25,5%) nel 2013 alla Legge 149, varata dal governo Letta nel tentativo di arginare l’onda gialla e i vaffanculo di Grillo, che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti, caso unico in Europa, ma introduceva il contributo volontario con lo 0,2% dell’Irpef. Sistema sartoriale favorevole ai grandi partiti. Una serie di pezze fin qui peggiori del buco, considerando che i partiti (o almeno quei pochi ancora realmente esistenti) sono in costante affanno economico, e che se non sei presente in Parlamento è molto difficile entrarvi per qualsiasi nuova formazione, a meno che non si disponga di un sostegno mediatico straordinario che tuttavia difficilmente è “aggratis”. A sottolineare la crisi dei partiti è anche la sparizione dei giornali politici e di partito – unico caso italiano è questo giornale, l’unico attualmente in edicola – un sicuro danno alla dialettica politica, al confronto pur se di parte, alla formazione infine di giovani talenti che un tempo entravano nelle istituzioni con un bagaglio di ideali e di cultura politica che oggi dopo l’immane fesseria “dell’uno vale uno” e dei parlamentari nominati dal capopartito di turno, ci sogniamo. Il finanziamento pubblico ai partiti ha sempre avuto nemici giurati perché ha consentito a tutti i ceti di poter partecipare e contribuire alle scelte politiche locali e nazionali. Previa una rigorosa formazione, che dai consigli comunali poteva portare su fino al Parlamento e al Governo. Oggi?

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