di Alessandro Silvestri
Tra meno di quaranta giorni si svolgeranno le elezioni presidenziali statunitensi più complicate e incerte degli ultimi vent’anni, anche e soprattutto per i riflessi internazionali che avranno. Tanto nei teatri di guerra, quanto in quelli geopolitici. Elezione fortemente condizionata come non mai dal web, col suo corollario di fake news, schiere di haters più o meno bipartisan, and last but not least, dall’incombere per la prima volta assoluta della incognita “IA”, che come tutte le grandi rivoluzioni tecnologiche “po esse fero o po esse piuma”. A latere della disgregazione politica in atto negli Usa, per opera preminente di Donald Trump, che ha utilizzato i mezzi propri della economia capitalistica iperliberista in politica, rompendo tutti gli schemi precedenti, dove vigeva una separazione formale e una sostanziale “no-fly zone” tra i diversi poteri, indebolendo fortemente un impianto istituzionale plurisecolare e riuscendo a dividere il popolo americano come nessuno mai in precedenza. Vincendo la prima volta, perdendo la seconda e adesso, nel mentre era nettamente in testa contro Biden, costretto a subire il cambio di cavallo in corsa dei democratici, con la Harris che tuttavia, nonostante un vantaggio nazionale in termine di voti assoluti, è indietro in alcuni degli Stati determinanti. Senza considerare che fattori imprevedibili, come il primo attentato contro Trump il 14 luglio in Pennsylvania (uno degli swing staes decisivi per l’elezione) e quello sventato il 15 settembre a West Palm Beach in Florida, potrebbero ribaltare in ogni momento l’esito finale. Ciononostante, le continue uscite di Trump e dei suoi sostenitori, sono un fritto misto di idee confuse sulla democrazia e di continue accuse al campo avverso di attizzare l’odio nei propri confronti. Una tecnica di ribaltamento della realtà, ben nota nei precetti goebbelsiani di un secolo fa. Alimentando così il complottismo via social da entrambe le parti, tanto che pure Elon Musk ha sentito l’esigenza di scrivere sulla sua pagina X “Nessuno cerca mai di assassinare Biden/Kamala”. Lo stesso tycoon che ha accolto trionfalmente Giorgia Meloni a New York per la 79esima assemblea generale ONU, in occasione del “Global Citizen Award” assegnatole dall’Atlantic Council, spendendo elogi per lei “ è più bella dentro che fuori…” mentre la nostra premier, con un discorso pienamente “atlantista”, ha citato la patria comune da difendere (l’Occidente) Jackson (non il Presidente e nemmeno il reverendo, ma il cantante) e Ronald Reagan. E così dopo gli immigrati “mangia gatti” si assiste all’ennesima recrudescenza di toni nel campo trumpista, in costante aumento da dopo il confronto tv dell’11 settembre, stravinto dalla Harris (i sondaggi hanno dichiarato il 63% di gradimento per la candidata Dem) colpo accusato con evidenza dal candidato repubblicano. Anche Papa Francesco è intervenuto sulle presidenziali, sollecitato da una domanda su quale candidato preferisse, accusandoli entrambi di essere lontani dai valori cristiani, uno per la posizione contro gli immigrati e l’altra per il sostegno all’aborto. Trump come risposta in una diretta su X ha dichiarato: “Dio mi vuole come presidente degli Stati Uniti”…Un caso di concorrenza religiosa sleale? Chissà come commenterebbe invece l’intervista della Harris ospite di Oprah Winfrey in prime-time, che ha dichiarato di possedere una pistola e anche l’intenzione di usarla in caso qualcuno tentasse di fare irruzione in casa sua. Sul fronte delle buone notizie invece, possiamo annoverare l’incontro tra Biden ed il premier britannico Keir Starmer, che hanno trovato pieno accordo sul rafforzare il sostegno all’Ucraina, anche se probabilmente a Londra si attende l’esito sul nuovo inquilino della Casa Bianca per aumentare gli aiuti richiesti da Kiev; mentre
sono state rimarcate le note differenze sulla situazione in Medio Oriente. Un nodo che potrebbe sciogliersi con l’elezione della Harris che ha notoriamente posizioni più sensibili verso la causa palestinese e la distensione tra i due popoli e che invece, in caso di una sempre possibile vittoria di Trump, i rapporti di Washington con Netanyahu si rafforzerebbero ulteriormente, aumentando i rischi di una guerra estesa a tutti i confini di Israele. Come già peraltro sta avvenendo. La partita è comunque ancora molto ingarbugliata anche per via del sistema elettorale statunitense, dove sono i grandi elettori a determinare l’elezione del Presidente. Nel 2000 Al Gore prese mezzo milione di voti in più di George W. Bush e nel 2016 Hillary Clinton addirittura tre milioni di voti in più di Donald Trump, ma non vennero eletti. Saranno invece con grande probabilità i 93 electors di 7 stati (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina, Georgia, Nevada e Arizona) a determinare il raggiungimento della quota per eleggere il nuovo Presidente, che è di 270. Per fortuna non votano i trumpiani italiani, un fenomeno alquanto trasversale nei due schieramenti (prendere o lasciare) della politica italiana, spesso e volentieri sostenitori anche dello Zar di quasi tutte le Russie, di Orban, di Milei e di Netanyahu. Chi si somiglia, si piglia.