di Lorenzo Cinquepalmi
Il 13 dicembre le autorità federali statunitensi, evidentemente informate di un imminente scalo in Italia di un ingegnere svizzero iraniano che a loto interessa, chiedono alla polizia italiana di fermare Mohammad Abedini-Najafabadi. L’arresto viene eseguito d’iniziativa dalla polizia italiana il 16 dicembre a Malpensa. D’iniziativa significa che in luogo della procedura normale, con la richiesta per via diplomatica, la segnalazione passa direttamente da una polizia all’altra, e quella italiana, nello specifico, su segnalazione americana, arresta l’iraniano senza notiziare preventivamente la magistratura, che viene coinvolta a posteriori. Si tratta di una procedura di eccezione, rispetto a quella ordinaria, prevista dal codice di procedura penale per casi di particolare pericolosità del soggetto ricercato sia per entrambi i Paesi coinvolti che per altri stati: una forma di cooperazione tra polizie di Paesi diversi. L’utilizzo di questa procedura, però, nel caso in questione, rappresenta una stonatura, tanto che la Procura di Milano apre un fascicolo di indagine sulle circostanze dell’arresto. Se a questo si aggiunge che poche ore dopo, con finalità abbastanza evidenti, l’Iran arresta sul suo territorio una giornalista italiana entrata regolarmente con un visto rilasciato per attività di inviata, pare impossibile negare che il nostro Paese sia rimasto coinvolto in un braccio di ferro tra americani e iraniani, nel quale tutelare i nostri interessi di sovranità e, soprattutto, di libertà e incolumità di Cecilia Sala, la cittadina italiana incarcerata in Iran, richiederebbe autorevolezza e peso politico internazionale perduti da trent’anni. Lo scenario vede, da un lato una scorribanda in casa nostra della polizia americana, con la sostanziale supinità di quella italiana nell’esserne il braccio operativo, per la cattura non di un trafficante di droga o di un mafioso, ma di un ingegnere le cui responsabilità sono, allo stato, assai meno evidenti delle ragioni politiche che lo rendono così appetitoso per gli Usa; dall’altro, l’arresto senza formalizzazione di accuse di una giornalista italiana inviata in Iran, solo poche ore dopo il fermo dell’iraniano in Italia. E ancora, forti perplessità della stessa magistratura sulla legittimità della procedura d’arresto dell’ingegnere, e incapacità della nostra diplomazia di capire anche solo il pretesto con il quale la Sala è stata incarcerata. Anche senza scomodare il precedente di Sigonella, è facile ricordare come ci sia stato un tempo in cui gli stessi Stati Uniti avevano più rispetto della sovranità italiana: oggi, gli americani, appena avuta notizia, probabilmente dalla nostra stessa polizia, che il loro bersaglio avrebbe fatto scalo in Italia, hanno semplicemente ordinato ai nostri organi di polizia di arrestarlo, senza troppe spiegazioni: un ordine da eseguire senza discutere. Ed è proprio su questo che la Procura di Milano sta investigando. Ma al tempo stesso, anche un regime spregiudicato come quello iraniano trent’anni fa avrebbe esitato parecchio prima di fare una sgarbo a quell’Italia che non esiste più: quella che sapeva essere interlocutore privilegiato di tutto il mondo arabo; quella che, con l’Eni, offriva ai Paesi produttori di petrolio, per lo più mussulmani, l’unica alternativa allo strapotere delle sette sorelle petrolifere; quella, ancora, che sapeva dire no agli americani, quando serviva, e sapeva, soprattutto, assumere il ruolo di mediazione e di ponte tra Occidente e Medio Oriente. Insomma, l’Italia di Craxi, di Andreotti, di De Michelis. Oggi, e speriamo di essere smentiti dai fatti, l’Italia di Tajani e Meloni (ma non sarebbe stata meglio quella di Letta e Gentiloni) annaspa alla ricerca della via d’uscita dal cul de sac in cui l’ha ficcata Abedini scegliendo di fare scalo in Italia anziché prendere un volo diretto per Zurigo. Almeno Öcalan, prendendo la sciagurata (per lui) decisione di passare per l’Italia, aveva commesso l’errore di fidarsi di D’Alema. Abedini invece ha fatto tutto da solo. Noi, intanto, dovremmo interrogarci sul come recuperare almeno una parte di quel prestigio e di quella credibilità che abbiamo smarrito nella drammatica dispersione del patrimonio nazionale provocata da mani pulite. Perché la geografia non è cambiata: l’Italia rimane la terra di mezzo tra occidente e oriente (medio ed estremo) e attraverso i nostri confini continua a passare una parte importante delle dispute tra questi due mondi. Craxi, Andreotti e De Michelis sono morti, ma la loro lezione, anche stando alle iniziative editoriali degli ultimi anni, può essere ripulita dal fango delle esecrazioni girotondine. Si tratta solo di scalzare dalle loro sedie i tanti mediocri che, grazie ai vuoti creati da mani pulite, hanno occupato la politica italiana. E va fatto nel modo tradizionale, non con il terrore giudiziario: con la politica e col voto. Se ritorniamo un Paese serio, in un’Europa seria, anche la peggiore teocrazia prima di fare uno sgarbo ci penserà due volte, perché le mediazioni autorevoli servono a tutti. Pensiamoci.