“Cabala” Harris

di Stefano Amoroso

Quella che è stata soprannominata la campagna presidenziale più pazza della storia degli Stati Uniti d’America non smette più di stupire. Dopo mesi di pressioni dei finanziatori e di richieste dalla base, il vecchio (in tutti i sensi) presidente Biden, veterano della politica a stelle e strisce, abbandona la corsa alle presidenziali in una domenica di luglio, a ridosso della Convenzione Democratica che sceglie il candidato del partito dell’asinello alla Presidenza USA, e lancia la sua vice, Kamala Harris. La quale non finge neanche per un attimo di essere stupita: ringrazia e comincia subito a tenere comizi ed iniziative elettorali. E meno male che, ancora fino a poche ore prima dell’annuncio del ritiro, dalla cerchia di Biden filtrava la certezza che avrebbe proseguito la campagna presidenziale, ed un certo ottimismo sulle sue possibilità di vittoria finale. Niente da dire: complimenti per il bluff in cui è caduto mezzo mondo, a cominciare dall’avversario Trump. Il miliardario ex presidente, ora, dovrà ripensare tutta la sua campagna elettorale, trasformandosi da attaccante a difensore, e non potrà più fare il tiro al bersaglio sul suo barcollante (sia in senso fisico che metaforico) avversario. E questo perché Kamala Harris, ex magistrato prestato alla politica, non solo ha vent’anni di meno di Donald, ma appare più fresca e motivante del suo ormai ex capo. Certo, in una situazione politica normale dovrebbero contare i fatti, oltre alla storia personale degli sfidanti. Ed i fatti ci raccontano che Trump è stato uno dei presidenti più divisivi della storia recente degli Stati Uniti, mentre la vicepresidente Harris è stata finora assai poco incisiva, quasi evanescente. Come si può pensare che gli elettori democratici la premino per le cose realizzate negli ultimi quattro anni di presidenza Biden, più di quanto non avrebbero fatto con lo stesso presidente? A meno che non si pensi che la diffidenza che circonda il veterano Joe sia solo frutto della sua malferma salute mentale e fisica. Tuttavia, è del tutto inutile porsi ora questi quesiti, visto che viviamo nell’epoca della realtà virtuale e la politica non può che prenderne atto. Se questo è quello che passa il convento, non resta che farci i conti. Il confronto Harris – Trump si presenta interessante per diversi motivi: ex magistrato contro il primo presidente condannato (sia pure non in via definitiva) per reati penali. Prima donna di colore candidata presidente, contro un miliardario bianco e figlio d’arte. Costa Occidentale contro Costa Orientale, e soprattutto due generazioni a confronto. Ce n’è abbastanza per accendere la fantasia dei conduttori di talk show ed armare penne e lingue dei commentatori politici. Il rischio, però, è che si parli più degli aspetti esteriori che della vera sostanza. Più della scatola che del contenuto, insomma. La speranza, nei cento giorni che ci separano dalle elezioni, è che almeno alcuni segni, numeri e lettere, come nell’antica arte della cabala, ci consentano di decifrare il futuro. E allora, se i lettori ce lo consentono, proviamo a cimentarci nella cabala di Kamala, ovvero nella decifrazione della politica di una possibile presidenza Harris. Prima di tutto il numero 3, tanto caro alla tradizione democratica: tre inteso come il triumvirato, che di solito regge le presidenze dei blu (colore distintivo dei Dem a stelle e strisce): se Obama era al vertice di un triangolo formato, oltre che da lui, dalla moglie Michelle e dall’ex presidente della Camera, Nancy Pelosi, e se Biden era al vertice di una triade in cui trovavano posto anche la moglie Jill e ancora la Pelosi, da chi sarà formato il triumvirato della Harris? Dal marito Douglas Emhoff, avvocato di Hollywood di origini ebraiche? E poi, da chi altro? Forse da un governatore Dem del Midwest, area contesa tra i due candidati e determinante per la vittoria? Forse la governatrice del Michigan, quella Whitmer che estremisti di destra volevano rapire e poi giustiziare dopo un sommario processo popolare, stile Brigate Rosse con Aldo Moro? Già questo basterebbe per renderla popolare. Vi è poi la maggiore conoscenza della geografia che Harris e la sua squadra sfoggiano: per lo meno, c’è da augurarsi, sapranno dove si trova l’Ucraina e che Bruxelles non è un ameno villaggio in mezzo ai boschi dell’Europa, ma la capitale di un’Unione Europea che è alleata dell’America e merita considerazione e rispetto. Al contrario di quello che predicano molti sostenitori trumpiani, che vogliono erigere fantasiosi muri che offrano lororiparo dalle malvagità ed avversità del mondo intero, c’è da augurarsi che la liberal Harris voglia migliorare la globalizzazione senza distruggerla, coordinare un mondo multipolare che ha ancora bisogno dell’America per vincere numerose sfide che interessano tutti, a cominciare da quella della transizione ecologica. Altro numero interessante è il 59, numero degli anni di Kamala (anche se presto ne compirà sessanta). 59, nella cabala, indica i peli. C’è dunque da sperare che la Harris sia una persona puntigliosa e determinata anche, se necessario, a cercare il pelo nell’uovo, rispetto ad un avversario che dà troppo spesso la sensazione di tagliare il mondo con l’accetta e di vedere tutto in bianco e nero. Tuttavia, possiamo anche sperare che la Harris sappia parlare senza peli sulla lingua, cosa di cui c’è un disperato bisogno. E non solo in America. Infine, sarebbe bellissimo se, in un mondo con tanti conflitti in corso, Kamala fosse in grado di non torcere neanche un capello a nessuno, se non per legittima difesa. Infine il numero 21, giorno della sua investitura da parte di Biden, è da sempre il numero del successo, della fortuna (Roma fu fondata, da tradizione, il 21 aprile) e perfino della perfezione religiosa, essendo frutto dei due numeri benedetti secondo la tradizione ebraica, vale a dire il sette ed il tre. Che sia di buon auspicio per Kamala e per tutti noi? Non possiamo che augurarcelo.

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