di Rocco Romeo
Il 2024 si chiude con un bilancio drammatico per il sistema carcerario italiano: 62.427 detenuti stipati in istituti di pena che, in molti casi, non rispettano nemmeno i requisiti minimi di vivibilità sanciti dalla Cassazione. Questo numero, in costante crescita, racconta una realtà lontana dai principi costituzionali che vorrebbero il carcere come luogo di rieducazione e reinserimento sociale. E lo trasformano, di fatto, in un luogo di espiazione e di privazione della libertà e della dignità, senza che tutto questo si traduca nella riabilitazione dei detenuti. La pressione esercitata dall’elevato numero di reclusi, aggravata dalle conseguenze del Decreto Caivano che ha portato ad un aumento dei minori in cella, si riflette non solo sui detenuti, ma anche sugli agenti di Polizia Penitenziaria, costretti ad operare in condizioni estreme. A oggi, il 2024 registra un tragico primato: 89 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti: numeri drammatici, mai raggiunti prima. Una vera e propria strage silenziosa. Le immagini delle celle sovraffollate e spesso al di sotto dello standard minimo di tre metri quadrati per persona, rappresentano un fallimento per uno Stato che si definisce civile. È impossibile parlare di riabilitazione quando i detenuti sono costretti a vivere in situazioni che minano la dignità umana. Le storie di vite spezzate dietro le sbarre sono il sintomo di un sistema che non riesce ad offrire speranza né alternative. La pena, che dovrebbe essere occasione di riflessione e cambiamento, si trasforma in una condanna disumana che spesso porta a gesti estremi. Il quadro è sconfortante, anche se qualche segnale di speranza, in contesti dove la speranza aveva lasciato spazio alla disperazione, ci sono (nel carcere di Secondigliano, ad esempio, grazie alla collaborazione con l’Università Federico II di Napoli, è stato istituito un polo universitario interno: lo scorso anno si sono laureati i primi detenuti). Un messaggio di forte impatto è arrivato, ancora una volta, da Papa Francesco, che lo scorso 26 dicembre ha scelto il carcere di Rebibbia per aprire la seconda Porta Santa del Giubileo. Davanti a detenuti, agenti penitenziari e operatori carcerari, il Pontefice ha invitato tutti a non perdere la speranza: «Aggrappatevi alla speranza, perché la speranza non delude mai». Le sue parole hanno risuonato come un monito ed un incoraggiamento, sottolineando che le carceri non devono essere luoghi di disperazione, ma di riscatto, di rinascita e di dignità. Vengono in mente le parole di Voltaire, che diceva che il grado di civiltà di una nazione si misura dalle sue carceri. Se vogliamo essere un Paese realmente civile, è necessario ripensare il sistema penitenziario, investendo in strutture adeguate e in percorsi di reinserimento. Le parole di Papa Francesco mostrano che un cambiamento è possibile, ma occorre un impegno condiviso e coraggioso. Perché un carcere che restituisce alla società persone migliori non è solo un vantaggio per i detenuti, ma per l’intera collettività. L’Italia non può più rimandare: il rispetto della dignità umana e la costruzione di un sistema penale giusto sono una responsabilità comune, da cui non possiamo più sottrarci. Eppure, il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in linea con l’impostazione securitaria di questo governo, è finito sotto accusa per l’inerzia in tema di carceri (e non solo). Il tema del sovraffollamento e della condizione di detenzione è stato affrontato, per ora, solo sulla carta.